CULTURA

QUEL GENERATIVO SAPERE DI SÉ

A proposito di «Le parole e i corpi. Scritti femministi», il nuovo libro di Maria Luisa Boccia edito da Ediesse
STEFANIA TARANTINOITALIA

Il femminismo non è solo storia, una teoria disincarnata e senza pratiche. Il femminismo è esperienza profonda che modifica la soggettività e il pensiero. Scompiglia ogni volta di nuovo l’ordine costituito, provoca rotture di ciò che è rigidamente fissato in una ragione universale che detta norme, impone ruoli e prescrive comportamenti. Il femminismo è l’onda di pensiero vitale fatto di parole e di corpi, di desideri di libertà, di presa di coscienza di sé. Asimmetria della propria eccedenza. È tutto questo a emergere con forza nell’ultimo libro di Maria Luisa Boccia, Le parole e i corpi. Scritti femministi - edito da Ediesse (collana sessismoerazzismo, pp. 280, euro 16), raccolta di scritti che coprono un arco temporale di circa venti anni dal 2000 al 2018.
IL VOLUME fa la sua comparsa nel momento in cui si tenta di rimettere al loro «posto» le donne riconsegnandole al loro tradizionale ruolo di mogli e madri. Ci sono cose da cui non si torna indietro: l’autodeterminazione delle donne, la loro scelta di libertà e di autonomia. Parole che hanno consentito di fuoriuscire dai perimetri imposti, di sovvertire la presunzione di un ordine «naturale» dato da una visione patriarcale del mondo che sotto il nome di Dio, di padre o di patria, ha sempre ridotto il potenziale rivoluzionario insito nel femminismo. Un potenziale che oggi è agito dai tanti e differenti femminismi che attraversano le piazze come quello di Non una di meno, che provoca dissesto in ciò che sembra andar da sé nel mondo del lavoro come quello sollevato dal movimento #metoo. Apre al riconoscimento di una pluralità di differenze non omologabili e non riducibili a una dimensione identitaria come quello aperto dal movimento Lgbt.
Nel riannodare i fili della sua esperienza più che ventennale all’interno del femminismo italiano della differenza, Maria Luisa Boccia fa i conti con la complessità in cui oggi ci troviamo a vivere e apre uno spazio necessario di confronto con i nuovi femminismi abitati prevalentemente dalle generazioni più giovani che si pongono come la «marea» che torna nelle strade e nelle piazze. Attraverso questo libro l’autrice risponde alla loro chiamata dando conto di quella genealogia che ha segnato nel corso del tempo la sua passione politica femminista, nella consapevolezza che oggi si tratta di mettere in relazione esperienze e pratiche diverse.
SE AL CENTRO del femminismo degli anni ’70 del secolo scorso vi era la pratica dell’autocoscienza, del partire da sé e del separatismo puro che consentiva la doppia militanza di molte donne in partiti politici di stampo tradizionale e quella in collettivi femministi, oggi la pratica femminista si svolge dentro i movimenti antagonisti misti in cui la differenza politica cede il passo a una rivendicazione sociale che trasforma radicalmente il senso di quella presa di coscienza di sé e dell’assunzione della propria identità sessuata. In questa mappatura delle continuità e della discontinuità dei femminismi contemporanei, l’autrice è consapevole che la coscienza femminista abbia prodotto e continui a produrre un punto di vista differente sul mondo. Fedele in questo a Carla Lonzi, di cui tra l’altro è fine studiosa e interprete, l’umano femminile veicola una significazione altra che pone una differente rappresentazione del mondo rispetto a quella maschile. Il lavoro fatto dalle donne dentro e fuori di sé ha consentito la creazione di soggettività capaci di veicolare una rappresentazione autonoma e libera rispetto alle categorie centrali della soggettività moderna.
NEL PRENDERE DISTANZE dalla sovranità dell’io e da un’idea di competenza e di funzionalità, la politica delle donne ha fatto leva sulla dipendenza e sulla relazione, sulla cura del vivere come legame primario della convivenza civile, sul riconoscimento della fragilità ontologica dell’umano da cui derivano obblighi più che diritti. Il prezioso riferimento a Simone Weil e ad Hannah Arendt ci consente di comprendere il rischio legato al meccanismo sociale con i suoi riflessi condizionati, segnati dalla logica della forza e dalla costruzione di un immaginario che solo apparentemente ci mette al riparo dalla nostra esposizione al mondo. L’azione libera è sempre imprevedibile e ha il sapore del miracolo. Nell’abbandono definitivo di una concezione astratta del soggetto razionale e del diritto come unico dispositivo atto a regolamentare le relazioni umane, le donne hanno da sempre ricomposto la trama dell’umano a partire dalla sua connessione al mondo. In questa ricomposizione da cui deriva un senso modificato del nostro esserci, il femminismo è riuscito a minare le fondamenta patriarcali del politico moderno mostrando possibilità di un modo altro di fare politica. È proprio questo il punto. Ciò che Boccia non vuole sia perso è il riconoscimento della differenza sessuale come relazione umana originaria incarnata. La pratica politica del femminismo ha creato soggetti politici incarnati. Ha puntato sulla sperimentazione di pratiche nate dall’esperienza e dalla ricerca di ciò che è stato perso nella costruzione del progresso storico e spirituale della modernità.
IN QUESTO PERCORSO di trasformazione la pietra d’inciampo è sempre stata il corpo. Il presupposto da cui partire è quello che vede nel corpo, nella sua materialità biologica, qualcosa di ineludibile dal momento che esso struttura la complessità costitutiva della soggettività umana. Tale presupposto, interpretato solitamente come essenzialista e rigidamente ancorato a un’identità immutabile, non è secondo l’autrice in contraddizione al riconoscimento di una molteplicità di differenze. Anzi, avvalendosi della metafora letteraria della creatura di sabbia tratta dal romanzo di Ben Jelloun, il corpo è inteso come ciò che è sempre mutevole e che non esaurisce la nostra soggettività. Supera i confini in quel nesso inestricabile di natura e cultura. Da questa prospettiva Maria Luisa Boccia prende le distanze sia dall’idea del corpo dato come cosa meramente naturale, sia da ciò che lo identifica come costrutto puramente culturale e discorsivo. Prende distanza da tutti quei tentativi di consegnarlo a un discorso tecno-scientifico e da quelli di natura moralizzante e restaurativa. Autodeterminazione significa appunto che una donna può sempre scegliere il suo percorso di libertà, che a prendere parola sul suo corpo sia la sua coscienza soggettiva libera di scegliere e di decidere sugli ambiti che la riguardano.
DALLA DISPONIBILITÀ del corpo femminile come oggetto di discorso e come oggetto di una padronanza maschile che ha segnato il patriarcato dalla notte dei tempi fino ad arrivare a noi nella sua versione neoliberale, all’indisponibilità a farsi ricatturare dall’oggettivazione e dalla mercificazione. In realtà l’autrice si chiede e ci chiede: quando finirà questa ingiustizia che tocca l’anima fino a spezzarla? Ci sono risposte? Forse sì. Dipende da noi. Dalla capacità che avremo di ripensare il corpo dentro la mente, di renderlo indisponibile alla frammentazione. Ciò ha sempre prodotto un’interruzione del corso della storia, creato inciampi, spazi inediti a partire dai quali rimescolare le carte e rimettersi in gioco.

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