INTERNAZIONALE

Tra i Rohingya in fuga dagli hindu indiani

Parte della minoranza etnica perseguitata in Myanmar è in Bangladesh: il pugno duro dell’India di Modi li ha trasformati in apolidi
GIULIANO BATTISTONMyanmar/india/Bangladesh/Cox Bazar

Nel campo profughi di Balukhali la vita scorre come da molti mesi a questa parte. C’è chi fa la coda per ricevere un pacco di aiuti, chi va a scuola o in moschea, chi fa la spesa nei tanti negozietti sorti come funghi, chi zappa, chi costruisce nuove strutture in mattoni, chi mastica betel.
Siamo in Bangladesh, nel distretto di Cox Bazar, in uno dei campi che dal settembre 2017 accolgono - prima nella fase dell’emergenza, ora sempre più in quella che sembra una «stabilità sospesa» - almeno 900.000 Rohingya.
COSTRETTI A FUGGIRE dal confinante Myanmar perché perseguitati, vivono nell’attesa di poter tornare a casa, ma senza timore di essere uccisi. Allungando lo sguardo sulle colline spolpate degli alberi che fino a due anni ricoprivano l’area, solo case su case, basse, in legno di bambù e tetti di plastica. Senza interruzioni.
Molte colline più in là, nel campo di Kutupalong è in corso una protesta. Un gruppetto di donne issa uno striscione e chiede a gran voce il rilascio degli uomini detenuti a Gedda, in Arabia saudita. Nelle carceri del regno dei Saud ci sono centinaia e centinaia di Rohingya, accusati di aver violato le leggi sull’immigrazione. Temono di essere deportati, come già successo recentemente a qualcuno.
La stessa preoccupazione c’è in India. Il 4 ottobre scorso 7 Rohingya sono stati deportati in Myanmar, dal posto di confine di Moreh, nello stato indiano di Manipur.
È STATO IL PRIMO SEGNO della nuova politica del governo di Narendra Modi: nessuna tolleranza per i Rohingya, ritenuti un pericolo, una minaccia all’integrità culturale e religiosa di un Paese che il primo ministro sogna soltanto hindu. E una buona carta da giocare nelle elezioni del prossimo aprile per mobilitare l’elettorale più nazionalista. Dal rimpatrio di ottobre, per i circa 40.000 Rohingya che vivono in India sono seguiti mesi di soprusi, abusi da parte delle forze di polizia e dell’intelligence, arresti arbitrari, pressioni affinché lasciassero il Paese. C’è chi l’ha fatto: sarebbero 1.300 quelli che negli ultimi mesi, temendo di essere rispediti in Myanmar, hanno lasciato l’India per il Bangladesh. Sei uomini, nove donne e sedici bambini non ce l’hanno fatta. I 31 Rohingya hanno vissuto per anni nello stato indiano di Jamnu e Kashmir. Con in mano un documento di riconoscimento rilasciato loro, come ad altri 16.500 Rohingya, dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati, pensavano di essere al sicuro.
MA PER IL GOVERNO DI MODI quei documenti sono carta straccia. I nazionalisti hindu invocano il pugno duro contro i «musulmani Rohinghya amici dei terroristi e spacciatori di droga», e Modi intende capitalizzare il malcontento. Il clima è cambiato: da qui la decisione che i 31 Rohingya - e prima di loro molto altri - hanno preso di partire per il Bangladesh. Da venerdì scorso fino a ieri sono rimasti intrappolati nella terra di nessuno che divide India e Bangladesh.
INUTILI I COLLOQUI tra i rappresentanti dei due paesi. Nessuna soluzione, se non quella dell’arresto da parte delle forze di sicurezza dello stato di Tripura. Per New Delhi sono un pericolo e una scocciatura.
L’India ha tergiversato a lungo sulla questione-Rohingya. Poche e tardive le posizioni ufficiali a favore della minoranza musulmana del Rakhine. C’erano i rapporti diplomatici con il Myanmar da mantenere. A dispetto dell’iniziale sostegno umanitario nei campi profughi, qui a Cox Baxar, l’India non ha giocato il ruolo che il Bangladesh si aspettava. Che lo faccia ora, è improbabile.
New Delhi ha scelto il pugno duro contro i Rohingya, profughi trasformati in apolidi. Lo stesso metodo adottato in Arabia saudita: l’8 gennaio le autorità saudite hanno deportato in Bangladesh 13 Rohingya che vivevano da anni del regno dei Saud, colpevoli di aver violato le leggi sull’immigrazione. Altri sono trattenuti da giorni nei cambi di detenzione di Gedda. Alcuni di loro hanno cominciato uno sciopero della fame. Qui nei campi profughi, nel distretto di Cox Baxar, la vita scorre come sempre, ma oggi c’è chi manifesta per loro.

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