CULTURA

Geografie remote della pazzia

JOHANNA HOLMSTRÖM - Un’intervista con l’autrice finlandese che ha scritto «L’isola delle anime»
ARIANNA DI GENOVAfinlandia

L’ultimo rumore che Kristina sente è il tonfo sordo dei suoi bambini quando i loro corpi infagottati cadono in acqua. Prima, li aveva avvolti in una coperta per proteggerli dal freddo pungente della notte e si era messa a remare come una forsennata. Dopo, non ricorderà più nulla. Elli, ragazza giovanissima e di buona famiglia, aspetta fiduciosa che la madre la riporti a casa. «Èper il tuo bene che sei lì», le viene risposto con distacco, ma lei crede nella saldezza dei suoi affetti e non presta attenzione a chi l’avverte che da quelle stanze nessuno mai è tornato indietro. C’è anche chi si ama con una passione lesbo e salvifica, rischiando la punizione per il piacere proibito, concedendosi momenti di leggerezza e fuga dalla propria angoscia.
L’isola delle anime di Johanna Holmström (nata nel 1981 e cresciuta a Sibbo sulla costa meridionale della Finlandia di lingua svedese) è il romanzo - esce domani per Neri Pozza, pp. 363, euro 18 - che narra le storie racchiuse fra le mura dell’ospedale psichiatrico di Själö. Un luogo che è rimasto per lungo tempo «un segreto aperto», come lo definisce la scrittrice.
Secondo ciò che si tramanda, il viaggio a Själö era di sola andata. Ci può spiegare il suo interesse per quest’isola, remota «casa» per il disagio psichico e, prima ancora, i lebbrosi?
Volevo scrivere un romanzo che fosse anche una «storia della malattia mentale nelle donne finlandesi», ma non avevo idea che l’isola di Själö esistesse. Mi ci sono imbattuta dopo alcune ricerche online. Ho poi scoperto la tesi della ricercatrice e sociologa Jutta Ahlbeck-Rehn, pubblicata nel 2006. Prima di lei, nessuno aveva acceso i riflettori sul suo ospedale, nonostante rappresentasse la prima istituzione statale per la «pazzia» in Finlandia. Ho lavorato negli archivi di Turku, sulla scorta delle parole di Ahlbeck-Rehn. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, per me in quanto scrittrice, trovare tutto quel materiale da sola. Ho studiato le storie dei grandi ospedali psichiatrici in Finlandia, ho letto Foucault, Freud, Lacan, consultato i giornali degli anni ’30 e scartabellato fra vari materiali. La ragione per cui quel luogo non era riuscito a calamitare interesse intorno a sé forse la si deve al fatto che era un ricovero per sole donne. Il destino femminile è stato negletto dagli storici e quel posto non ha fatto eccezione. Il manicomio ha chiuso nel 1962 e da allora è stato poco indagato, almeno fino al 2006. È vero, comunque, che Själö è sempre stato un viaggio di sola andata. Era lì che dimoravano le «incurabili».
La lontananza geografica dell’isola simboleggia anche l’inverno delle emozioni?
Rendeva sicuramente più semplice l’oblio. Fino a non molto tempo fa, era motivo di vergogna avere un parente in manicomio. Si tendeva a rimuovere le fotografie del congiunto, si cancellava la sua presenza dagli album di famiglia. Poiché Själö era difficile da raggiungere, le visite erano quasi impossibili. Madri o mariti non potevano prendersi una settimana per andare a trovare le «malate», bisognava percorrere molti chilometri a cavallo e in carrozza: si doveva lavorare, non esistevano le vacanze. Era più comodo dimenticare.
Con questo romanzo vuole consegnare una memoria a molte giovani donne costrette ad abbandonare le loro case, anche sulla scia di pregiudizi sociali?
Assolutamente. Le ospiti del manicomio erano quasi sempre povere. Non avevano voce nella società. Eppure, avevano avuto delle vite. Mariti, fidanzati, bambini, genitori, sorelle e fratelli. Venivano deprivate di tutto. Il paradosso è che se non fossero mai state rinchiuse in un ospedale psichiatrico, non avremmo saputo nulla delle loro esistenze. Erano invisibili perché la società si concentrava solo sugli uomini e sulle classi superiori. Ma dal momento che le donne sofferenti venivano esaminate dai medici, sono rimaste le loro cartelle e interviste. È grazie ai tribunali e agli ospedali che conosciamo le vite di quelle ragazze comuni. Volevo ritrovare la loro voce, entrando nei pensieri e personalità delle pazienti in un modo che nessun diario medico né documento giudiziario avrebbe potuto restituire.
Lei colleziona storie di solitudine e disperazione: Kristina, Elli, Karin, anche Sigrid. Sono vere o immaginarie?
Sono sia vere che di finzione. Kristina annegò i suoi figli per la disperazione. C’erano molte donne come lei a Själö e negli ospedali di tutta Europa, in quegli anni. Nella miseria, avevano avuto figli da più partner. A un certo punto, perdevano il controllo della propria vita. La Kristina reale ha un nome diverso ma lasciò affogare il suo bambino in un modo simile a quello che riporto nel libro. Il resto è finzione. Elli, invece, è più un’idea di cosa sarebbe potuto succedere, negli anni ’30, a una ragazza di ottima famiglia alle prese con un esaurimento nervoso. Il suo personaggio si basa sulla cartella clinica molto dettagliata di una paziente di una classe sociale diversa. Alcune informazioni della stessa storia sono servite per il carattere di Karin. Ho preso piccoli pezzi di biografie di pazienti diverse e reali e ho messo insieme personaggi possibili, ma immaginari. Creare Sigrid (la nurse che alla fine condivide la stessa sorte delle recluse, negandosi alla vita, ndr) è stato il compito più difficile: nessuno ha scritto qualcosa sulle infermiere. Sono state loro stesse spesso a fornire i racconti in archivio. Tuttavia, dal modo in cui scrivevano, dalle parole e gli aggettivi che usavano si poteva leggere tra le righe se la persona che impugnava quella penna era affettuosa, oppure irritata, distante... I figli delle infermiere mi hanno detto più volte che quando le loro madri parlavano del lavoro a Själö, riferivano che era stato il periodo più felice della loro esistenza.
Un ospedale psichiatrico è un’istituzione totale in cui la società persegue l’annientamento individuale. Prigionieri e sorveglianti finiscono per condividere lo stesso destino, non crede?
Per vivere in una comunità chiusa con gerarchie così forti, devi diventare parte del sistema. L’obiettivo delle infermiere era di far obbedire le pazienti. Le consideravano come bambine da punire o premiare per convincerle a fare ciò di cui l’ospedale aveva bisogno. Gran parte della «terapia» consisteva nel lavoro. Pulizie domestiche, lavoro nei campi e nei giardini, confezioni a maglia di vestiti e guanti, cucina. L’intera isola ha funzionato come fosse una comunità che manteneva in attività l’ospedale stesso. La punizione per la disobbedienza era l’isolamento. Non poche ore: alcune pazienti venivano segregate nelle loro stanze ogni volta che avevano le mestruazioni o anche diversi mesi, per tutto l’inverno. Le donne che arrivavano senza una diagnosi precisa, dovevano ammettere di essere effettivamente pazze.
Il sanguinamento delle mestruazioni ricorre nel romanzo. C’è l’idea che la follia sia collegata al potere del corpo femminile: genera vita e dà morte ...
Non appena gravidanza e parto furono sottratti alle ostetriche e messi nelle mani dei dottori, si trasformarono in condizioni speciali che richiedevano l’intervento di medici e la permanenza in ospedali. L’intero processo divenne misterioso e pericoloso. Lo stesso vale per le mestruazioni, momento a rischio di follia per le donne. I medici, a quell’epoca, erano uomini e tutto ciò che il loro corpo non poteva fare veniva catalogato come alieno e confuso.
Anche in un luogo come Själö l’amicizia e l’amore riescono a scrivere un lieto fine...
Volevo includere una storia d’amore, ma in un posto di sole donne era impossibile imbastire una relazione convenzionale. Mi piaceva finire il libro con una sorta di felicità perché è una lettura triste e un lieto fine è una ricompensa per me come scrittrice e anche per tutti coloro che lo leggono, così come per i personaggi coinvolti. Le storie di quelle ragazze erano già strazianti, doveva esserci qualcos’altro a bilanciarle. Sono convinta che nascano amicizie in qualsiasi posto dove le persone sono costrette a stare insieme per molto tempo, nei campi profughi, nelle prigioni e nei gulag.
Sta lavorando a un nuovo romanzo?
Sì, a una raccolta di racconti che include tutti i crimini o gli incidenti che hanno attratto i media. Per esempio, nel 2004 un autobus pieno di adolescenti che andavano a sciare si schiantò contro un camion che trasportava rotoli di carta industriale. È stato il peggior incidente stradale nella storia della Finlandia, con 24 morti. Cose del genere sono il mio materiale, non in modo così diretto. Nella storia, c’è un uomo che fotografa i siti degli incidenti stradali. Sto facendo ricerche anche per un altro romanzo, ma l’argomento è ancora segreto.

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