VISIONI

Un mistero nell’oscurità della memoria

LA TERZA STAGIONE DI «TRUE DETECTIVE»
GIOVANNA BRANCAusa

«Ricorda che oggi verrà la troupe televisiva a casa per l’intervista»: Wayne Hays (Mahershala Ali) è un uomo anziano, la sua memoria è frammentaria, non più affidabile, e la sua stessa voce registrata gli ricorda cosa deve fare giorno per giorno. Lo conosciamo, in apertura della terza stagione di True Detective (Hbo) - di cui per ora sono usciti solo i primi due episodi - giovane detective nei primi anni ’80, uomo di mezza età nel 1990 e ormai anziano nel 2015. Ma i tre archi temporali sono uniti da un unico evento traumatico - quasi più della guerra in Vietnam alla quale hanno preso parte sia Hays che il suo partner Roland West (Stephen Dorff) - la scomparsa in una cittadina dell’Arkansas di due bambini, Julie e Will Purcell, nel giorno della morte di Steve McQueen: il 7 novembre 1980. Hays e West sono i detective assegnati al caso, sul quale ancora nel 2015 non è stata fatta pienamente luce.
LO SCORRERE del tempo e l’articolarsi della storia su diversi piani temporali, la coppia di detective, il Sud degli Stati Uniti - ambientazione che diventa un personaggio a sé stante - l’oscurità che incombe sulle deboli strutture sociali appena vengono scosse da uno shock sono tutti elementi che riportano la terza stagione di True Detective (lo showrunner è ancora una volta Nic Pizzolatto) alle «origini», alla stagione 1 con la sua ricerca della verità lunga oltre vent’anni e le sue atmosfere southern gothic. Che qui incontrano delle suggestioni di «cronaca vera», con dei rimandi disseminati nella trama e nella location all’omicidio negli anni ’90 di tre bambini, sempre in Arkansas, per i quali finirono in prigione i West Memphis Three, tre adolescenti poi scagionati dopo oltre un decennio - un caso celebre su cui era basato anche Fino a prova contraria - The Devil’s Knot di Atom Egoyan.
E la stagione 3 entra più a fondo anche nella Storia e nelle sue ferite evocate dalla dolorosa incertezza della memoria del protagonista: il Vietnam - e lo spartiacque che ha rappresentato per una generazione partita per le armi - il razzismo come fatto quotidiano, non brutalmente esibito ma che percorre gli sguardi, le reazioni, i sospetti del piccolo paese colpito da un male inspiegabile.
La scrittura è insomma tornata al vigore e al fascino della prima stagione dopo il malriuscito detour hard boiled della seconda, anche se - per ora - manca il tocco di Cary Joji Fukunaga alla regia, in grado di trasformare le suggestioni della sceneggiatura in incubi palpabili.

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