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Diario di un astrofisico

ANDREA CAPOCCIpolo sud

«Sono qui da ventiquattr’ore, e già mi rendo conto che è molto probabile che la missione fallisca». Inizia così il diario antartico di Federico Nati, astrofisico romano giramondo: oggi lavora all’università di Milano-Bicocca, l’anno scorso era in Pennsylvania.
È la fine di novembre 2018, quando al Polo Sud non fa mai notte. Dopo un lungo viaggio dalla Nuova Zelanda su un aereo militare, Nati è arrivato alla base antartica di McMurdo.
DOVRÀ COORDINARE una missione scientifica che ha richiesto anni di preparazione. «Il giorno costante, il fuso orario ribaltato di dodici ore, la stanchezza del viaggio hanno sfibrato il mio senso dell’orientamento temporale», annota. «Spero che anche la mia lucidità sia compromessa, cosicché la netta sensazione di fallimento imminente sia frutto di allucinazioni polari».
La missione si chiama Blast, da Balloon-borne Large Aperture Submillimeter Telescope. Si tratta di mandare nella stratosfera un telescopio da tre tonnellate legato con duecento metri di cavo d’acciaio a una mongolfiera grande come un campo di calcio. Tutto mentre si mantiene il collegamento satellitare con i server Nasa in Texas. A dieci gradi sottozero.
IL TELESCOPIO BLAST capta le onde infrarosse provenienti dalle nebulose di polvere interstellare. Sono grandi regioni del cosmo in cui galleggiano frammenti piccolissimi di materia: da granelli di pochi micron fino a singoli atomi di idrogeno. In queste zone si formano le stelle: la gravità porta le polveri ad aggregarsi e a scaldarsi fino a innescare le reazioni nucleari che tengono acceso anche il Sole. Tuttavia, spesso le stelle non si formano nonostante la nube contenga sufficiente materia, e dunque forza di gravità. Si ritiene che i campi magnetici impediscano a tali nubi di addensarsi. Studiando le onde emesse dalle polveri si può scoprire se i campi siano davvero così intensi. Più altre cosette, come le onde gravitazionali generate dal Big Bang.
«Ci sono due motivi principali che spingono gli astrofisici in Antartide» spiega Nati. «Il primo è che questo continente è un immenso deserto».
L’ARIA SECCA PERMETTE di osservare nitidamente il cosmo più lontano. «Il secondo motivo che porta qui gli scienziati che vogliono studiare il cosmo sono le caratteristiche dei venti negli strati più esterni dell’atmosfera terrestre. Io sono qui per il secondo motivo».
Tra la fine di novembre e l’inizio di gennaio, sul Polo si crea un vortice di venti che permette di mandare il pallone a quaranta chilometri di quota – praticamente nello spazio – e recuperarlo un mese dopo dove avrà deciso di precipitare: probabilmente tra crepacci in cui nessuno è mai atterrato prima, ma mai troppo lontano. Altrove, in balia dei venti di quota, andrebbe perso per sempre, o rischierebbe di cadere in testa a qualcuno. L’area di lancio non è a McMurdo, ma su una piattaforma di ghiaccio galleggiante a dieci chilometri di distanza. Ogni anno, una squadra specializzata deve aprire una nuova pista nella neve facendo lo slalom tra i crepacci «pronti a inghiottire chiunque si allontani anche solo di pochi metri» e montare gli hangar per gli esperimenti. QUI INIZIANO LE SORPRESE: quest’anno la squadra non ha potuto lavorare, a causa del meteo avverso e la pista ancora non c’è. Ci vorranno un paio di settimane per la pista, più i tempi della preparazione dell’attrezzatura, e si arriverà a fine dicembre o inizio gennaio, quando il vortice in quota si rompe. C’è il serio rischio di sprecare anni di lavoro e rimandare tutto di altri dodici mesi. È la ricerca, bellezza. «Rita (Levi-Montalcini, ndr), mi rivolgo al tuo spirito, proteggici, per la madonna» scrive Nati sul diario.
QUANDO GLI HANGAR finalmente sono in piedi, tutti i componenti del telescopio sono pronti per l’assemblaggio. Il cuore del telescopio è uno specchio di alluminio commissionato dalla Nasa che ha richiesto quattro anni di sviluppo e due milioni di dollari.
Deve essere mantenuto perfettamente asciutto perché l’acqua corrode l’alluminio. Aprono la cassa ed è zuppo. Lo spedizioniere sull’etichetta ha scritto «fragile» ma non «tenere all’asciutto», come da istruzioni. «Lavori anni, decenni, e una vite avvitata male, un cavo tagliato da qualcuno che ci è passato sopra con una sedia, un pulsante che ci si dimentica di premere, uno spedizioniere che distratto dallo smartphone non clicca la spunta giusta, rischiano di far saltare l’intero progetto», annota.
FORTUNATAMENTE, I DANNI non sono così gravi, quindi si monta l’attrezzatura freneticamente e si fanno gli ultimi test. Dopo cinque settimane di lavoro sul ghiaccio si avvicina il giorno buono per il lancio. Finito l’ultimo test, una valvola si blocca. «Lavoriamo per cercare di sbloccarla poi ci arrendiamo, anche per non rischiare di rompere qualcosa annebbiati dalla spossatezza. Non capiamo fino in fondo cosa è successo, che spesso significa che non lo capiamo affatto», scrive Nati, «spero di finire in tempo per il cenone natalizio».
Auguri, ma per riparare il guasto si lavorerà fino a Capodanno, tra pezzi di ricambio rimediati negli scarti di McMurdo, tralicci di metallo segati a mano, falsi contatti in mezzo a migliaia di fili, decisioni prese al volo dopo sedici ore di lavoro sul ghiaccio. La data del lancio è in mano ai metereologi. La prossima giornata di sole senza vento è prevista per la mattina del 2 gennaio, dopo un’altra notte in bianco. Il giorno arriva e, al momento buono, salta il collegamento con il computer in Texas. Si telefona per ripristinarlo ma negli Usa è ancora il 1 gennaio: sono tutti in pieno hangover e nessuno risponde. Passano le ore e la finestra si esaurisce: lancio rimandato. La prossima finestra è il giorno dopo. «Le ore ormai sono diventate solo riferimenti numerici, senza alcun collegamento con i ritmi circadiani, la luce del giorno, i normali turni di lavoro, gli orari dei pasti».
ALLE QUATTRO DEL MATTINO si ripete la procedura. Prima di Blast, c’è un altro team che deve lanciare un altro strumento (si chiama X-Calibur) con lo stesso sistema. Ha qualche problema pure lui: dopo il lancio il pallone si sgonfia come se fosse bucato, perde quota e finisce su un ghiacciaio. È già il secondo che finisce così: c’è un problema con i palloni? Si contatta la Nasa ma negli Usa nel frattempo è iniziato lo «shutdown»: finché Trump e il parlamento non si mettono d’accordo sul bilancio, l’amministrazione federale è bloccata, con gli impiegati a casa. L’unica alla Nasa che risponde non se la sente di autorizzare l’esperimento. Tutto rimandato di nuovo. Un’altra finestra è prevista 24 ore dopo. Stavolta ben otto ore di sole senza vento, è fatta. Ma le previsioni si rivelano sbagliate: il terzo stop arriva quando il cavo è già steso sulla neve pronto al decollo.
L’ULTIMA FINESTRA DISPONIBILE è per il mercoledì successivo. Ma ormai il vortice di venti che stabilizza i palloni si sta rompendo. Rinunciare significherebbe buttare via mesi di preparazione e settimane di lavoro sul ghiaccio.
Lanciando il pallone, c’è qualche chance di realizzare l’esperimento, ma c’è il forte rischio di perdere il telescopio. Vale la pena? «Tra tutte le ragioni per non lanciare il nostro esperimento, il destino ha scelto la più difficile, la più crudele, la più beffarda: ha lasciato che fosse una decisione nostra».
Non vi diremo come va a finire: il finale lo trovate sul «Diario Antartico» di Federico Nati, per le edizioni Facebook. Chiedetegli l’amicizia, è meglio di una serie di Netflix. Senza accorgersene, al Polo Nati ha lavorato a due esperimenti. Uno riguarda la fisica, i telescopi, le stelle. L’altro, invece, la comunicazione della scienza.
IL SUO «DIARIO», infatti, è un genere letterario interamente nuovo, a metà tra il documentario scientifico, il racconto di un esploratore e il thriller.
L’esperimento è decisamente riuscito e andrebbe ripetuto in altri campi. Non sempre gli scienziati sono in grado di comunicare efficacemente il loro lavoro. Anzi, le randellate dei cattedratici alimentano per reazione il rancore contro gli eruditi. Ma c’è anche chi sa raccontare la scienza come una vicenda umana di passione, frustrazione, rischio. Ed è tutta un’altra cosa.

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