CULTURA

Irena, l’infermiera salvifica del ghetto di Varsavia

Everteen
ARIANNA DI GENOVApolonia/Varsavia

Sotto un melo in giardino, nella via Lekarska 9, di Varsavia, per anni è rimasto sotterrato un barattolo pieno di striscette di carta, all’apparenza di nessuna importanza. Sopra, con la grafia incerta di chi va di corsa e agisce di soppiatto, c’erano scritti solo nomi - veri e falsi - di bambine e bambini ebrei fatti uscire clandestinamente dal ghetto e salvati tramite l’adozione di famiglie che avevano organizzato una rete di soccorso. Di nomi ce n’erano tantissimi: 2500, una specie di catalogo dell’infanzia ritrovata e sfuggita a un viaggio di sola andata come Treblinka. A seppellire lì quel tesoro, per far sì che un giorno la storia ricomiciasse a tessere i suoi fili, ripartendo dal bene e non dalla «banalità del male» era stata l’infermiera polacca Irena Sendler, Jolanta al tempo dei nazisti. Almeno così la conoscevano gli abitanti disperati del ghetto di Varsavia: qui erano stati trasferiti, in un quartiere recintato da un alto muro di tre metri, almeno 400mila ebrei.
La sua biografia eroica irrompe nel presente - a dieci anni dalla morte che la colse novantottenne - proprio nei giorni dedicati alla Giornata della Memoria della Shoah, grazie a un albo per i più piccoli, appena pubblicato da Giuntina: Tutte le mie mamme di Renata Piatkowska (illustrazioni di Maciej Szymanowicz, pp. 50, euro 15). Irena la vediamo sorridente in una foto giovanile, quando come assistente sociale si intrufolava nel ghetto per disinfestare le case ma in realtà per aiutare le famiglie a trovare una via di fuga. E poi la ritroviamo alla fine del libro, con lo stesso sorriso e anzianissima, non piegata da carcere e torture. A raccontare quella «mamma» speciale è invece un «nonno», il signor Szymon Bauman che, seduto su una panchina del parco, sonnecchia sempre. Fino a quando, una mattina, decide di rompere il silenzio e rendere i lettori partecipi della sua vicenda, che poi - reale o immaginaria - è emblematica per moltissimi ebrei (polacchi e non). Allo scoppio della guerra, la sua famiglia poteva ancora dirsi tale e cercava di ripararsi dal peggio come poteva, ma alla cattura del padre da parte delle SS tutto precipita. Fino all’ingresso in quel ghetto di miseria e morte dove fame e tifo falcidiavano intere generazioni. Ammucchiati in stanze gelide, con qualche patata e un pugno di riso ogni tanto, Szymon e i suoi s’inventano modi di sopravvivenza. Non è facile: la madre si ammala, la zia finisce in ospedale senza più fare ritorno, la sorella Chana viene portata via dai tedeschi. A Szymon vengono strappati tutti i suoi affetti, ma Irena lo condurrà fuori da quell’inferno. Almeno da quello esterno: quello interiore brucia ancora.

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