VISIONI

Kazuya Shiraishi, dalla yakuza al futuro apocalittico

Maboroshi
MATTEO BOSCAROLGIAPPONE

Con un frenetico e produttivo 2018, che ha visto tre dei suoi lungometraggi uscire nelle sale dell’arcipelago giapponese, più un altro, su cui ritorneremo più avanti, annunciato e poi saltato in un festival internazionale, Kazuya Shiraishi è uno dei registi dell’arcipelago di cui più si parla in questi ultimi tempi. Certo non si tratta, ancora, di un nome dall’appeal internazionale come possono essere Hirokazu Kore’eda, Kiyoshi Kurosawa o Sion Sono, ma il quarantaquattrenne cineasta originario dell’isola settentrionale dell’Hokkaido sta a poco a poco, con lavori spesso di genere e indipendenti, guadagnando la stima degli addetti al settore e di certa parte del pubblico giapponese.

Shiraishi comincia la sua avventura nel mondo del cinema come membro del gruppo di studio del regista Genji Nakamura per poi lavorare come assistente per alcuni nomi piuttosto importanti della settima arte del Sol Levante. Ricordiamo che parte della sua formazione e maturazione come regista avviene infatti grazie alla partecipazione al cosiddetto Wakamatsu-gumi, il gruppo che gravitava attorno al compianto Koji Wakamatsu durante la sua rinascita come regista e l’ultima fase della sua carriera nel primo decennio del millennio. Proprio dall’esperienza con l’iconoclasta autore giapponese nasce Dare to Stop Us! film, di cui abbiamo già scritto su queste pagine, che descrive un particolare momento della Wakamatsu Production, toccando temi interessanti come quelli del ruolo femminile nei gruppi rivoluzionari ed in particolare nel cinema. Nei primi mesi del 2018 è uscito inoltre Sunny, storia del rapimento di una giovane insegnante con la quale Shiraishi esplora l’ossessione di parte della popolazione giapponese verso i gruppi di idol femminili. Ma il film forse migliore, o almeno quello che maggiormente ha impressionato la critica giapponese, diretto da Shiraishi nel 2018 è The Blood of Wolves, lungometraggio che omaggia apertamente il cinema di yakuza degli anni settanta, su tutti il ciclo Lotta senza codice d’onore di Kinji Fukasaku con cui il genere venne di fatto rivoluzionato e reinventato.

The Blood of Wolves descrive le vicende di un poliziotto corrotto, interpretato magnificamente da Koji Yakusho, nei bassifondi di una tetra Hiroshima sul finire degli anni ottanta del secolo scorso, prima dell’entrata in vigore di alcune leggi speciali contro il crimine organizzato.
Come l’anno passato anche il 2019 si preannuncia scoppiettante e piuttosto produttivo per l’autore giapponese, che ha infatti in uscita per quest’anno almeno due lungometraggi, Nagi Machi, la storia di un uomo che si vede licenziato e costretto a cambiare città in cerca di fortuna, e soprattutto Mahjong Horoki 2020 (A Gambler’s Odyssey 2020). Un lavoro che in un primo momento era stato invitato all’International Film Festival di Macao lo scorso dicembre, ma alcuni giorni prima della proiezione ufficiale è stato ritirato dalla manifestazione per volere degli stessi organizzatori. Il film racconta le vicende di Boyatetsu, un giocatore di Mahjong che viene trasportato dal 1945 al 2020, un anno in cui il Giappone è devastato da disoccupazione, depopolamento e da una guerra in corso. I motivi ufficiali che hanno portato al ritiro del film dal festival sono «un’eccessiva rappresentazione di sesso e violenza» e «una storia troppo cinica dove le Olimpiadi del 2020 a Tokyo sono sospese a causa di un conflitto bellico». Come se non bastassero questi motivi per rendere il film già meritevole di visione, pochi giorni fa è stato reso noto che gran parte delle immagini di A Gambler’s Odyssey 2020 sono state girate attraverso uno smartphone.

matteo.boscarol@gmail.com

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