INTERNAZIONALE

L’Isis c’è e colpisce Manbij: quattro marines tra le vittime

Attentato nel nord della Siria mentre Pence a Washington dava Daesh per «sbriciolato»
CHIARA CRUCIATIsiria/Manbij

La telecamera di sorveglianza puntata su Sindis Street, nel centro di Manbij, cattura la brutale esplosione. Sono le 12.38 di ieri, ora locale. È l’ora di pranzo e il ristorante Qeser al Umaraa, come ogni giorno, è pieno. È lì dentro che un kamikaze si fa saltare in aria. Il bilancio è di 18 morti, 14 civili e quattro marines statunitensi. Manbij non è un luogo qualsiasi: è la città, nel nord della Siria, dove sono di stanza i 2mila soldati Usa inviati a sostegno delle Forze democratiche siriane.
POCHE ORE DOPO ARRIVA la conferma della coalizione a guida Usa, dall’account Twitter dell’operazione Inherent Resolve: «Membri dell’esercito Usa sono stati uccisi in un’esplosione mentre conducevano un pattugliamento di routine in Siria. Stiamo ancora raccogliendo informazioni».
Parlano anche i testimoni, scampati alla strage: uno di loro, Khaled Awsah, sentito dai media curdi, dice che in quel ristorante «c’erano anche combattenti delle Sdf e soldati Usa a pranzo, vengono ogni giorno, perché è al centro della città». Poco dopo, aggiungono altri residenti, un elicottero americano ha evacuato i militari feriti per portarli alla base Usa.
A parlare è anche l’Isis, dal suo megafono, l’agenzia Amaq: rivendica l’attentato e smentisce la Casa bianca. Perché mentre i marines saltavano in aria insieme a 14 civili, il vice presidente Mike Pence, a una conferenza al Dipartimento di Stato, ribadiva quanto affermato da Trump a metà dicembre: «Il califfato è sbriciolato e l’Isis è sconfitto». Non così sbriciolato se uno dei suoi miliziani è riuscito a infiltrarsi così in profondità nei territori liberati dalle Sdf, nel cuore della presenza americana nella zona.
QUELLA DELLA VITTORIA è una retorica che l’amministrazione Usa tenta di far passare per dare un senso al ritiro ormai annunciato delle truppe dalla Siria. Soprattutto alla luce dei rapporti traballanti con la Turchia, a cui Trump un giorno allunga la carota e il giorno dopo sventola il bastone. Nei giorni scorsi il presidente ha prima minacciato di devastare l’economia turca se mai Ankara avesse alzato un dito contro le unità di difesa popolare curde, Ypg e Ypj, e poi ha dato l’ok alla tanto agognata zona cuscinetto che Erdogan va rincorrendo da anni. Secondo il presidente turco, in una telefonata con lo Studio ovale mercoledì, Trump stesso ha suggerito una safe zone larga 30 km e lunga 460, lungo tutto il confine turco-siriano.
PERNO DELL’OPERAZIONE dovrebbe essere proprio Manbij, città fondamentale sia dal punto di vista strategico che simbolico: liberata dopo Kobane, nell’agosto 2016, dalle neonate Sdf, da curdi, assiri, arabi, turkmeni, rappresenta il sogno democratico di una Siria multietnica e multiconfessionale, autogestita secondo il modello di Rojava. Un ostacolo per i piani turchi, che del nord della Siria vogliono fare un luogo omologato e controllabile, da riempire di soggetti ad Ankara fedeli, a partire dalle milizie islamiste anti-Assad. Le stesse che ieri davano per imminente l’operazione lungo l’Eufrate, verso Manbij e poi oltre il fiume: alla Reuters Adnan Abu Faisal, ex comandante dell’esercito governativo passato nelle file delle opposizioni e ora tra i leader delle milizie legate alla Turchia, ha detto che i miliziani sono già dispiegati con 300 veicoli blindati 35 km a sud di Manbij, nella vicina Jarabulus, pronti ad agire non appena Ankara darà il via libera. A dividerli dalla città terreni coltivati a grano e l’esercito di Assad (chiamato dai curdi a intervenire nel caso si materializzi il ritiro statunitense) e Mosca, a cui Rojava avrebbe presentato una bozza di intesa con Damasco per una futura autonomia.
DI CERTO C’È IL RIFIUTO curdo alla zona di sicurezza di cui discuterebbero Erdogan e Trump, almeno nei termini immaginati dalla Turchia. Rojava la accetterà solo se a gestirla sarà l’Onu, a impedire un’offensiva separarando le truppe turche dai combattenti curdi. Dello stesso avviso è il governo di Damasco: Erdogan parla «il linguaggio dell’occupazione e dell’aggressione», dicono dalla capitale.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it