INTERNAZIONALE

Ritiro iniziato ma i marines restano in Siria. Anche l’Isis

Caos Usa, partono solo equipaggiamenti. Daesh uccide ancora da Raqqa a Deir Ezzor
CHIARA CRUCIATIusa/siria

Pochi dettagli e una mezza smentita: in tipico stile trumpiano, ieri gli Stati uniti hanno iniziato a ritirarsi dalla Siria. Ma i marines restano. L’annuncio lo aveva dato ieri mattina il colonnello Sean Ryan, portavoce della coalizione anti-Isis: «È iniziato il processo del nostro ritiro dalla Siria. Per ragioni di sicurezza, non daremo tempistiche specifiche o movimenti di truppe». Poche ore dopo tre alti funzionari anonimi specificavano: non stiamo ritirando uomini, ma equipaggiamento non essenziale. Il caos: fino a 24 ore prima, il consigliere alla sicurezza Usa Bolton e il segretario di Stato Pompeo, rispettivamente da Ankara e Il Cairo, parlavano di un prosieguo della lotta all’Isis fino al ritiro.
Washington lascia il paese nella guerra che ha contribuito ad accendere. A bassa intensità, ridotta nei modi e nei luoghi, ma che è ancora lì presente, in buona parte frutto delle cellule dell’Isis attive sul confine orientale. Lunedì a Raqqa un kamikaze del «califfo» ha sparato sulla gente e poi è saltato in aria in una base delle unità di difesa curde, Ypg: cinque uccisi, di cui quattro civili.
RAQQA RESTA quel che era al momento della cacciata dello Stato Islamico, una città in macerie che ieri Amnesty è tornata a denunciare: «Deploriamo il fatto che la coalizione a guida Usa continui a venir meno, anche adesso che inizia a ritirarsi, alla sua responsabilità di svolgere indagini degne di nota sulle centinaia di civili uccisi a Raqqa – dice Lynn Maalouf, direttrice per il Medio Oriente – La coalizione sta vergognosamente dimenticando la devastazione lasciata dalla sua campagna di bombardamenti».
E ieri sei bambini sono morti di inedia mentre tentavano con altre 8.500 persone di raggiungere il campo profughi di al-Hol nel nord della Siria: scappano da Deir Ezzor, dove l’Isis mantiene una presenza ridotta ma distruttiva. Nella zona di Hajin si combatte: espulsi dalle Ypg, gli islamisti stanno tornando e seminano morte.
AD HAJIN VIVONO solo 2mila persone, in sei mesi ne sono fuggite 25mila. Arrivano in condizioni terribili, a piedi: freddo, sete e fame li riducono a scheletri e in alcuni casi uccidono, difficile dare bilanci. È in questo contesto che ieri è iniziato il ritiro Usa dalla base di Rmeilan, ad Hasakah, nord-est siriano, a poche ore dalla visita di Bolton ad Ankara. Ai turchi il consigliere di Trump non ha dato nulla di concreto, se non cinque punti non scritti su cui discutere. Tra questi l’intenzione di contrastare l’Isis, non si sa bene in che forma, e di negoziare una soluzione della questione curda. Washington, a parole, dice di voler tutelare chi davvero combatte l’Isis.
MA DI FRONTE ha un alleato che non aspetta altro che un ritiro per demolire il confederalismo democratico di Rojava. Non a caso, mentre Bolton chiacchierava, il ministro degli esteri turco Cavusoglu andava in tv a dire che le tempistiche dell’offensiva nel nord siriano le decide Ankara, con o senza marines. Alla Casa bianca in realtà importa poco, troppo presa dal descrivere al mondo la dottrina Trump.
L’ha srotolata Pompeo al Cairo, all’American University, stesso palcoscenico da cui dieci anni fa Obama promise (poi non mantenne) un’era di rapporti nuovi con i paesi arabi.
Il segretario di Stato fa saltare il tavolo e, dopo aver descritto gli Usa come «forza vera» e criticato il predecessore di Trump per troppa «inazione» (sic), prima ha aperto a una soluzione politica in Siria che, senza dirlo esplicitamente, guarda ad Assad e poi ha mirato alla preda: l’Iran. Tutto ruota intorno a Teheran, l’intera confusionaria strategia Usa: «È tempo di mettere fine alle vecchie rivalità per il bene più grande della regione», distruggere l’Iran. «Gli Usa useranno diplomazia e lavoro con i partner (la famosa "Nato araba", ndr) per espellere ogni singolo stivale iraniano dalla Siria» e per ridurre a zero l’export di petrolio iraniano.
UN APPROCCIO MUSCOLARE che sta producendo povertà e frustrazione tra gli iraniani, disillusione tra i palestinesi messi all’angolo dall’idillio tra Israele e Golfo e disperazione tra gli yemeniti bombardati dai sauditi. Tutti popoli che, nel suo discorso da «forza vera», Pompeo non ha nemmeno nominato.

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