VISIONI

Jocelyne Saab, raccontare il mondo come gesto di libertà

Addio alla cineasta che coi suoi film aveva narrato il Libano della guerra
CRISTINA PICCINOlibano/beirut

Da dove si può cominciare a raccontare Jocelyne Saab, libanese, cineasta, fotografa, giornalista, intellettuale raffinata, femminista, sempre in prima persona nelle battaglie che hanno attraversato il suo Paese, anche quando ne era fisicamente lontana, e quel medioriente di cui ha illuminato conflitti, ambiguità, contraddizioni e bellezza? In una intervista sul suo ultimo film, What’s going on? (2009), girato a Beirut quando era stata nominata capitale mondiale della cultura diceva: «Questa è una città surrealista. André Breton ha detto:’Il più grande gesto surrealista è fare la cacca in un posto, lasciarla lì e andarsene’. Penso che Beirut racchiuda in sé il significato simbolico di questa affermazione. Si fa la guerra, e la guerra è una merda, e poi si va via lasciando la città con le sue macerie».
SI PUÒ cominciare allora dal Libano, dove era nata, a Beirut nel 1948, e cresciuta prima di spostarsi in Francia, a vent’anni, seguendo il desiderio di fare cinema. La città dell’Olp di Arafat, della lotta per la liberazione della Palestina, dei palestinesi rifugiati nei campi, della distruzione che torna nelle sue immagini e nelle sue storie, che è paesaggio emozionale e insieme gesto di resistenza, mai fantasmagoria nostalgica ma militanza, impegno. Capace di guardare dentro alla storia collettiva e nella sua rappresentazione sin dai primi lavori, Saab traccia nel suo Paese una cartografia più ampia, che comprende altre storie, e al tempo stesso interroga il gesto dell’artista e la sua relazione con la realtà. La stessa sfida che la porta in Palestina (Femmes palestiniennes, 1973, Les Palestiniens continuent, 1974), Libia (Gheddafi, 1976), Iran (Iran, l’utopie en marche, 1980), Vietnam (La Dame de Saïgon, 1997), Turchia (Imaginary Postcards, 2016), Kurdistan iracheno, Siria, Egitto dove ha spesso vissuto - Égypte, la Cité des morts (1977), Alexandrie (1986), Les Almées, danseuses orientales (1989).
TUTTO inizia negli anni Settanta, quando Saab viene chiamata dall’amica scrittrice Etel Adnan, come reporter di guerra per il suo giornale, «A Safa», un’esperienza importante che viene presto messa alla prova con l’inizio del conflitto civile libanese.
Lei gira quello che sarà il primo di quattro documentari su quanto sta accadendo, Le Liban dans la tourmente( 1975) - subito vietato - ritratto del Libano tra contrasti religiosi e economici radicati nel colonialismo, il rapporto difficile coi rifugiati palestinesi arrivati dopo l’invasione della Palestina, la frammentazione dei suoi abitanti. Nel successivo Beyrouth jamais plus (1976) la violenza appare negli edifici rasi al suolo, nelle strade dove si vedono solo bambini alla ricerca di cibo, mentre sulle immagini scorrono le parole di Etel Adnan. E poi Lettre de Beyrouth (1978), e Beyrouth, ma ville (1982, con il testo di Roger Assaf) in cui le sue immagini in risposta a una ferocia sempre più grande sperimentano nuovi limiti: all’inizio, in una sequenza magnifica, vediamo Saab tra le rovine ancora in fiamme della casa di famiglia che prende un microfono e cerca di opporsi alla cancellazione di una memoria, e di una storia famigliare, di oltre centocinquanta anni.
O forse si potrebbe cominciare dai suoi personaggi di donne irriverenti, libere, sensuali, che sanno con pochi gesti trasformare il desiderio e la curiosità in armi pericolose per quelle società machiste e smaniose di controllo specie verso le energie più indocili. Ecco le ragazze protagoniste di Il était une fois… Beyrouth (1994) - ma l’esordio nella finzione è con L’Adolescente sucre d’amour / une vie suspendue, protagonisti Juliet Berto e Jacques Weber (1985). Beirut ancora una volta fuori (e contro) quelli stereotipi che sembrano condannarla anche nella rappresentazione. «Volevo riprendere possesso della mia città con una visione meno disperata di quella imposta dalla guerra. Mi piaceva ritrovare quello sguardo amoroso che ho sempre avuto su di lei» spiegava Saab. La storia di Beirut (scomparsa) si srotola davanti agli occhi delle due giovani protagoniste che hanno conosciuto solo la guerra attraverso i film, i volti delle star, le memorie custodite con cura in quello che somiglia a un vitalissimo museo dialogando col lavoro che Saab stava facendo nello stesso momento per ricostruire la Cineteca libanese, perché la realtà è lì, nella sua messinscena, e quel patrimonio alla prima persona è anche l’identità massacrata di tutti loro.
Poi c’è Dunia (2005), girato al Cairo e messo al rogo - la censura è un’altra costante nel suo lavoro, quando nel 1977 aveva dato voce al Fronte Polisario nel Sahara marocchino (Le Sahara n’est pas à vendre), era stata bandita dal Marocco .
Il motivo? Parlare del piacere femminile e della libertà di una ragazza mentre intorno la «tradizione» torna con prepotenza a soffocare le donne è un affronto. E se Le Mille e una notte vengono censurate e le sorelle subiscono l’escissione (che il film attacca duramente) Dunia - l’attrice di Chahine Hanan Tork, poi divenuta islamica - vuole danzare e studiare la poesia sufi, usare il corpo e farlo vibrare. I fondamentalisti egiziani condannano Saab a morte.
NEL 2006, QUANDO il Libano è sotto le bombe israeliane torna a Beirut per realizzare l’installazione Strange Games and Bridges, passaggio all’arte - da poco in Francia è uscito il suo libro fotografico Zones de guerre (edizioni l’Oeil) - e nel 2013 fonda il Festival International du Film de Résistance Culturelle, che si svolge in diverse città libanesi con l’obiettivo di ricostruire i legami tra quelle comunità che si pensano antagoniste. Ma in fondo tutto questo è parte di una trama unica, della continua tensione a dare voce, immagine, racconto collettivo, lucidità poetica e politica a realtà, vite, sentimenti complessi - stava infatti preparando un film su May Shigenobu (la figlia di Fusako Shigenobu militante dell’Armata Rossa giapponese) troppo spesso chiusi in una sola dimensione. Reinventando a ogni passaggio l’immaginario.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it