INTERNAZIONALE

Il carisma «da lupo» di Ren e la benedizione di Jiang Zemin

LA STORIA DELL’AZIENDA CINESE
ALESSANDRA COLARIZIcina/Shenzhen

Una «cultura da lupi». Con queste parole Ren Zhengfei, fondatore di Huawei, descriveva tempo fa la filosofia manageriale dell’azienda più ammirata e temuta al mondo, caratterizzata da «sensi acuti, indomabile aggressività e spirito di squadra». Ora che uno dei «lupi» è caduto nella trappola tesa da Stati uniti e Canada la flessibilità manageriale maturata negli anni potrebbe dimostrarsi una qualità salvifica davanti ai venti contrari che infuriano.
HUAWEI NASCE NEL 1987 con un investimento iniziale di appena 3mila dollari, quando Ren, allora vicedirettore del genio militare -«vicecomandante del reggimento ma privo di rango militare» - lascia l’esercito più che quarantenne per lanciare il guanto della sfida ai grandi players occidentali di allora. Dapprima assemblando componenti per centralini analogici destinati alle immense aree rurali in Cina, all’epoca ancora prive di rete telefonica. È solo nel 1993, con il commutatore digitale avanzato C&C08, il più performante dell’epoca, che la compagnia si afferma sul mercato interno grazie a una strategia di personalizzazione dei servizi in base alle esigenze locali.
LA SOCIETÀ DI REN comincia così a tessere rapporti collusivi con le autorità provinciali, fornendo «dividendi» ai funzionari in cambio dell’utilizzo dei prodotti Huawei nella rete locale. Un modus operandi «non ortodosso, confinante con la corruzione, ma non illegale», spiega Nathaniel Ahrens in China’s Competitiveness: Myth, Reality, and Lessons for the United States and Japan: Case Study: Huawei. Come si sa, oltre la Muraglia le guanxi (il network di agganci interpersonali) sono la vera chiave del successo.
Non fa strano quindi che sempre in quegli anni Huawei si sia aggiudicata la costruzione della prima rete nazionale di telecomunicazioni per il Pla, l’esercito, un accordo ritenuto «piccolo in termini di attività generali, ma grande in termini di relazioni». «La tecnologia delle apparecchiature di commutazione è legata alla sicurezza nazionale e una nazione che non ne dispone è come una nazione senza esercito» sentenziò l’allora segretario del Partito Jiang Zemin durante un incontro con Ren.
NEL 1996, l’adozione di una politica esplicita di sostegno statale nei confronti dei produttori nazionali attraverso l’esclusione dei concorrenti stranieri, conferì a Huawei il ruolo di campione nazionale. Una qualifica che in un primo momento non parve ostacolare la sua lunga marcia verso i mercati esteri. India, Olanda, Gran Bretagna, Australia e Svezia sono solo alcuni dei paesi in cui il colosso cinese ha seminato centri di ricerca durante i primi anni Duemila. Una corsa inarrestabile culminata nel luglio 2010 con un primo importante debutto nella lista Fortune Global 500 pubblicata dall’omonima rivista statunitense grazie a un fatturato annuo di 21,8 miliardi di dollari e un utile netto di 2,67 miliardi. 
LA MARATONA SI FERMA quando nel 2012 un rapporto del Congresso americano per la prima volta bolla Huawei come un rischio per la sicurezza nazionale. Da allora le mire della compagnia si sono spostate verso Europa, Giappone, Medio Oriente e Africa. Oggi Huawei ha già superato Apple per numero di vendite e si appresta a scavalcare Samsung entro la fine di quest’anno con un obiettivo record di 102,2 miliardi di dollari di incassi, più di Boeing. Ma la sua strategia di internazionalizzazione non procede più tanto spedita e, sebbene il colosso cinese sia meno dipendente di Zte dalla tecnologia Usa, le preoccupazioni americane iniziano a trovare sostegno anche tra i vecchi paesi amici con il rischio reale di un effetto domino.
L’ARRESTO DI MENG Wanzhou non poteva arrivare in un momento peggiore. Ma la storica adattabilità di Huawei potrebbe dimostrarsi ancora una volta un utile salvagente. Come spiegano sull’Harvard Business Review  David De Cremer, docente della  University of Cambridge, e Tian Tao, direttore del Ruihua Innovative Management Research Institute presso la  Zehjiang University, l’azienda di Shenzhen ha un sistema interno tutto particolare, caratterizzato dalla condivisione delle responsabilità e dei benefici attraverso la partecipazione azionaria dei dipendenti - che fino al 2014 vedeva Ren detenere soltanto una quota dell’1,4%. Non solo. Una turnazione semestrale prevede un’alternanza continua dei tre vicepresidenti (compresa miss Meng) nell’esercizio del ruolo di Ceo, mentre il fondatore mantiene la funzione di supervisore. «Questa innovativa struttura manageriale rende la compagnia meno vulnerabile se un capo sbaglia o deraglia».

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