VISIONI

A Merrie Land lo sguardo attonito del rock sulla Brexit

Storie in bilico dal Regno Unito per The Good, The Bad & The Queen
CECILIA ERMINIgb

È nello sguardo spiritato e schizoide di Michael Redgrave, a sua volta osservato da una sinistra marionetta, che, in una sola immagine (tratta dal film horror a episodi Incubi notturni del 1945), si cristallizza l’intero senso di letterale smarrimento che pervade Merrie Land, nuovo album dei The Good The Bad & The Queen ovvero il supergruppo assemblato anni fa dal poliforme Damon Albarn che include Paul Simonon, Tony Allen (pioniere dell’afro-beat) e Simon Tong (ex The Verve). Dolorosa e contraddittoria fotografia dell’Inghilterra post Brexit, con Merrie Land il viaggio della band si espande e l’occhio non indaga più unicamente la capitale ma l’intera nazione, dopo un primo album che dipingeva Londra come luogo sì amato ma fantasmatico, sommerso dalle acque e della memoria in una sorta di proseguimento ideale di quella Londra «che affoga e io vivo vicino al fiume» che cantava proprio Joe Strummer quando Simonon sfasciafava il suo basso sulla copertina di London Calling dei The Clash. Merrie Land assume la forma di un lamento quasi epistolare, un’indagine spettrale dove ogni canzone si abbandona al distacco, alla partenza «Se te ne stai andando/per favore dì addio» sono le prime parole pronunciate da Albarn proprio nella title track mentre un organetto da fiera di paese e un andamento ipnotico e circolare regalano un senso quasi tragico, come di fronte a un parco giochi abbandonato.
COME Albarn stesso ha dichiarato, il disco non è politico ma ispirato da eventi politici e infatti non menziona mai direttamente la Brexit ma ambienta quasi tutte le canzoni, evitando così retorica o piagnisteo, nella cittadina di Blackpool, nel nord dell’Irlanda, che registrò nel 2016 il 67,5 di voti a favori dell’uscita dall’Unione. Il cantautore ha definito l’album come un qualcosa di molto simile a Parklife dei Blur ma mentre i parallelismi musicali sono davvero esigui, le similitudini dello sguardo sono palesi, avviandosi, come sempre in prima persona, in una personale esplorazione attraverso l’odierna Gran Bretagna e ponendosi come osservatore del proprio tempo e cantore della sua generazione. Non a caso il disco si apre con una citazione de I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, evocando così quel risorgere panico della natura e quel pellegrinaggio verso una meta salvifica in modo che, all’oscurità contemporanea, corrisponda un viaggio di luce e purificazione. Disinnescando l’Inghilterra idealizzata dai pro-Brexit grazie all’uso ricorrente di immagini di una terra «dove nulla cresce» e piena di «oscure pozzanghere», Albarn e i suoi compagni sembrano infine ridisegnare i connotati musicali della nazione, creando una sorta di nuovo folk inglese grazie a un miscuglio di ritmi ska (The Great Fire), pulsioni afro-beat (Gun to the Head), aggrappandosi quasi al krautrock (Nineteen Seventeen) come in un tentativo di non perdere definitivamente un mondo intero di suoni e culture.

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