SOCIETA

Violento blitz dei militari libici sulla Nivin, «11 feriti»

MISURATA
ALESSANDRA SCIURBA* libia/misurata

Ieri mattina i profughi che resistevano asserragliati sul cargo Nivin a Misurata sono stati violentemente sbarcati.
Da 10 giorni rifiutavano di scendere da questa nave commerciale alla quale il centro di coordinamento marittimo italiano (Imrcc) «da parte delle autorità libiche» aveva ordinato, nella notte tra il 7 e l’8 novembre, di soccorrere un gommone con 94 persone che si trovava nel Mediterraneo poco distante dalla sua posizione. La Nivin aveva obbedito ed effettuato il salvataggio, ma poi, sotto scorta delle motovedette libiche, aveva riportato i profughi proprio nel paese da cui stavano fuggendo, a quanto pare dicendo loro che sarebbero stati invece portati in Italia.
MEDITERRANEA, allertata da Alarm Phone la notte stessa del naufragio, ha seguito la storia della Nivin fin dall’inizio. Ha cercato di amplificare la voce di quei ragazzi che chiedevano aiuto all’Europa, continuando a ripetere: «Meglio morire che tornare in Libia». La maggior parte di loro, peraltro, proviene da paesi come il Sudan, retto da un dittatore condannato per crimini contro l’umanità, o dall’Eritrea, da dove migliaia di giovani sono costretti alla fuga per salvarsi la vita.
La loro resistenza ha rappresentato la scelta tra rischiare tutto per cercare di rimanere esseri umani, oppure arrendersi alla violenza di un sistema che prevede la riduzione di donne, uomini e bambini a rifiuti. Solo una donna con il suo bambino di pochi mesi e alcuni minori erano scesi quasi subito dalla Nivin, e il mondo ha letto, senza battere ciglio, di come fossero stati riportati nei centri di detenzione libici.
Mediterranea, fornendo costanti aggiornamenti sulla situazione di crisi sanitaria a bordo, ma anche testimoniando della catena di comando che tramite MrccIta aveva segnato la sorte dei profughi della Nivin, ha chiesto da subito ai governi dell’Ue, a partire dal nostro, di intervenire per una soluzione pacifica conducendo queste persone in un porto finalmente sicuro. La stessa richiesta è stata fatta da Amnesty International, ma anche da agenzie Onu come l’Oim. Ma nessuno ha ascoltato.
SI TEMEVA DA GIORNI l’irruzione a bordo delle forze libiche contro i 79 profughi che non avevano accettato di essere nuovamente imprigionati, dopo che i capi libici (come parlare di autorità in un paese governato da milizie contrapposte?) avevano dichiarato di considerarli semplicemente come terroristi e pirati. E di pirateria sono infatti accusati adesso, con conseguenze prevedibilmente terribili.
Non è ancora chiaro il livello di violenza usata sulle persone che erano sulla nave nel momento del blitz. Francesca Mannocchi, unica giornalista italiana sul posto, che è sempre stata in contatto con Mediterranea ed è la fonte delle testimonianze pubblicate su mediterranearescue.org, ha parlato fin da subito di feriti portati in ospedale, almeno 11 di cui 3 in gravi condizioni, e di molte persone ricondotte nei centri detentivi.
LA LOTTA DEI PROFUGHI della Nivin riaccende le luci sull’aberrazione giuridica di avere riconosciuto alla Libia una zona di ricerca e soccorso in mare senza che questo paese possa essere in nessun modo considerato un porto sicuro. Mentre si continua a criminalizzare le ong, da ultimo il caso Aquarius, i governi europei, e l’Italia innanzitutto, hanno non solo consentito, ma legittimato e messo a sistema la violazione dei diritti fondamentali.
Nel 2006, quando esistevano canali di ingresso legali, 550.000 migranti sono entrati in Italia con un visto: quasi tre volte quelli arrivati nel 2016, l’anno della «crisi dei rifugiati». I trafficanti, a quei tempi, non facevano buoni affari, perché le persone arrivavano sui loro piedi e in modo più sicuro per tutti. I profughi della Nivin ci hanno ricordato cosa è la dignità, hanno fatto appello alla nostra umanità. Proviamo ad ascoltarli adesso.

*Mediterranea Saving Humans

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