INTERNAZIONALE

Moro superministro «problema non da poco»

BRASILE/PARLA GHERARDO COLOMBO
CLAUDIA FANTIbrasile

Continua a far discutere in Brasile la nomina di Sérgio Moro a ministro della Giustizia e della Sicurezza pubblica. Nomina che ha il sapore di una ricompensa, dal momento che Jair Bolsonaro ha vinto le presidenziali proprio grazie all’esclusione elettorale di Lula, di cui Moro è l’indiscusso responsabile.
Il giudice simbolo dell’operazione Lava Jato si è insomma tolto la maschera. Fino a giustificare la presenza nel futuro governo - nell’importante ruolo di capo della Casa Civil - di Onyx Lorenzoni, reo confesso per il reato di finanziamento illecito della campagna elettorale, che in Brasile è definito caixa 2: «Lo ha ammesso e ha chiesto perdono», ha spiegato, come se le scuse fossero sufficienti ad assolvere chi delinque. «Moro ha istituito una nuova forma di estinzione del reato», ha infatti ironizzato l’avvocato criminalista Kakay.
In risposta alla nomina del giudice, però, i legali di Lula hanno presentato un ricorso alla Corte Suprema per chiedere la sua scarcerazione e l’annullamento del processo. Moro, denunciano gli avvocati, «ha seguito interessi politici, mantenendo durante la campagna elettorale i contatti con l’équipe del candidato Bolsonaro, malgrado fosse ancora il giudice incaricato del processo contro Lula».
Sul suo controverso ingresso in politica abbiamo chiesto l’opinione di Gherardo Colombo, ex magistrato del pool di Mani Pulite - a cui la Lava Jato viene paragonata - e presidente dell’associazione Sulleregole, impegnata nell’educazione alla legalità, nel volontariato nelle carceri, nella formazione degli insegnanti.
Ha fatto enorme scalpore in Brasile il sì di Sérgio Moro alla carica di ministro della Giustizia e della Sicurezza nel governo Bolsonaro. Qual è la sua opinione al riguardo?
Ritengo che un magistrato che voglia dedicarsi alla politica debba in primo luogo dimettersi definitivamente dalla magistratura, operando in tal modo una scelta senza ritorno. In secondo luogo, tra le sue dimissioni e l’ingresso in politica dovrebbe passare un certo lasso di tempo, soprattutto qualora abbia acquistato notorietà per il suo operato come giudice. In assenza di tali condizioni, è facile che si crei un’indebita confusione tra politica e giustizia.
Il fatto che Bolsonaro abbia vinto proprio grazie all’esclusione elettorale di Lula, condannato da Moro in un processo contestato dai giuristi nazionali e internazionali, sembra dimostrare la parzialità del giudice. Cosa ne pensa?
Il lavoro di Moro ha avuto ricadute rilevanti sul piano elettorale. Il fatto che egli abbia accettato di diventare ministro, in maniera repentina, per la forza politica che ha tratto oggettivamente vantaggio dalle sue indagini potrebbe gettare più di un’ombra sulla sua effettiva indipendenza come giudice.
Come ha reso noto il vicepresidente Hamilton Mourão, l’invito a diventare ministro era stato rivolto a Moro già incampagna elettorale, cioè mentre il giudice, a meno di una settimana dal primo turno, rendeva pubbliche le denunce rivolte contro Lula dal suo ex ministro dell’Economia Antonio Palocci. Non ritiene che così il principio di indipendenza dei giudici sia stato calpestato?
Se le cose stanno come me le espone, credo sia legittimo avanzare dubbi sul rispetto del principio di imparzialità.
Moro ha dichiarato di aver deciso di entrare in politica ispirandosi a Giovanni Falcone, il quale, ha detto, «dopo essere riuscito a eliminare l’impunità di Cosa Nostra, ha abbandonato Palermo per Roma, lasciando la toga per divenire direttore degli affari penali del ministero di Giustizia...». È possibile mettere a confronto le due vicende?
In nessun modo. Penso che Falcone avrebbe respinto tale confronto. Perché egli non ha assunto affatto un ruolo politico, è andato solo a svolgere un’attività di tipo tecnico.
In Brasile si tende anche a paragonare il caso di Moro a quello di Di Pietro ministro del governo Prodi...
In realtà, il fatto che Di Pietro abbia esercitato la carica di ministro in un governo presieduto da un ex rappresentante della Democrazia cristiana ha scongiurato il rischio che potessero sorgere seri sospetti sulla sua imparzialità di magistrato, dal momento che le sue indagini hanno interessato tanti esponenti di quella parte politica. È un po’ come se Sérgio Moro avesse accettato di diventare ministro in un governo a guida Pt. Inoltre, Di Pietro ha ricoperto l’incarico di ministro dei Lavori pubblici, non di ministro della Giustizia. E, infine, ha lasciato passare circa un anno e mezzo tra l’abbandono della magistratura e il suo ingresso in politica.
Cosa pensa dell’accorpamento Giustizia-Sicurezza pubblica?
Direi che esiste un problema non di poco conto. Tra l’esercizio della giustizia e il compito di garantire la sicurezza possono infatti sorgere contrasti di interesse difficilmente sanabili.
La Lava Jato è stata spesso definita la Mani Pulite brasiliana. È d’accordo?
Non molto. Anche nei dibattiti che ho sostenuto in Brasile insieme a Sérgio Moro ho sempre evidenziato le importanti differenze esistenti tra il sistema giudiziario italiano e quello brasiliano. In Italia, per esempio, è inammissibile che il magistrato che ha eseguito le indagini possa giudicare ed emettere la condanna, senza alcuna separazione tra chi si occupa delle indagini e chi provvede al giudizio. Che è invece quanto è avvenuto nel caso di Lula. Inoltre, non è possibile che, al di fuori della sede giudiziaria, un giudice esprima valutazioni sul processo di cui si sta occupando, mentre non è insolito che ciò avvenga in Brasile.

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