VISIONI

In caduta libera nella distopia di Trump

Christine Baranski racconta il suo personaggio Diane, protagonista di «The Good Fight»
LUCA CELADAUSA

La prima stagione di The Good Fight si apriva sullo sguardo esterrefatto dell’avvocata di Chicago Diane Lockhart (Christine Baranski) sul discorso inaugurale di Donald Trump in tv. Nella seconda stagione (pacchetto completo di 13 episodi su Tim Vision) l’inscalfibile democratica Diane comincia ad assumere piccole dosi di allucinogeni per poter tollerare un mondo in cui Trump è presidente Usa - al punto che anche per lo spettatore diventa difficile comprendere cosa stia davvero accadendo e cosa sia frutto della percezione distorta della protagonista della serie tv creata da Robert e Michelle King (produttore esecutivo Ridley Scott), e spinoff di The Good Wife. Qui la politica Usa assume un ruolo ancor più rilevante, e gli sceneggiatori lavorano sull’attualità in ogni episodio, sovrapponendo appunto le allucinazioni di Diane alla cronaca spesso ancor più allucinatoria della Casa bianca. Abbiamo incontrato Baranski a Los Angeles.
Cosa contraddistingue «The Good Fight»?
Ci sono molte ottime serie che hanno un’attinenza con l’attualità ma credo che forse nessuno abbia catturato lo zeitgeist del Paese quanto lo ha fatto il nostro programma. The Good Fight ha colto bene ciò che significa essere un avvocato donna, istruita e progressista nell’era di Donald Trump. Quanto sia strano, particolarmente per le donne, vivere sotto questa amministrazione dopo essersi aspettate la prima presidente alla Casa bianca. Poi la sconfitta, e infine l’avvento di quello che viviamo oggi: una realtà da incubo. Personalmente non mi sono mai divertita tanto come in questa nona stagione (Baranski ha interpretato Diane anche nelle sette stagioni di The Good Wife, ndr) ad interpretare il mio personaggio, proprio per l’opportunità che offre di commentare ciò che significa vivere questo strano momento, non solo qui negli Usa ma in tutto il mondo.
Ovvero?
C’è la sensazione netta di essere in caduta libera. Nessuno può dire cosa ci aspetti, è assurdo. Non si può credere a come ci si sta servendo del potere, al linguaggio che viene utilizzato, la distorsione della verità. È un momento davvero distopico e per questo motivo è anche perfetto per scrivere un programma che colga l’essenza dell’attualità come stanno facendo i King.
La vostra trama infatti si sovrappone alla realtà.
Ricordo che durante le riprese della scorsa stagione tornavo in camerino dopo ogni scena e guardavo il telegiornale: mi sembrava esattamente quello che stava vivendo il mio personaggio – una donna a cui sembra di impazzire mentre cerca di capire ciò che sta succedendo nel suo mondo. Diane ha faticato tutta la vita per arrivare dov’è, per battere i pregiudizi, e d’improvviso il mondo è sottosopra. Credo che la seconda sia stata un’ottima stagione per tutti i personaggi, ma soprattutto per Diane perché lei nel corso dei sette anni di The Good Wife è sempre stata quella misurata e razionale, che ragionava con le persone per calmarle. Per questo farle perdere il controllo credo sia stata una scelta coraggiosa dal punto di vista della sceneggiatura. Lo perde al punto che arriva ad assumere la psilocibina e tiene una pistola nella borsetta perché teme di venire assalita. Credo che siano riusciti a rendere questa dimensione evitando il grottesco o il satirico. Non siamo in Westworld o in Game of Thrones, o in uno strano universo parallelo. Il nostro programma è ambientato nell’attualità, un compito piuttosto impegnativo vista l’imprevedibilità delle notizie che arrivano ogni giorno.
Il suo personaggio, Diane, è un simbolo femminile.
Credo che le donne abbiano fatto molta strada, e che nel mondo ci siano molte vere Diane Lockhart. È solo che si vedono poco nei film e in tv, e se ne parla poco anche sulla stampa e nei media. In campo legale negli Usa abbiamo Ruth Bader Gisnburg (giudice della corte suprema, ndr.) E prima di lei c’è stata Sandra Day O’ Connor e la generazione di Hillary Clinton. Ma ci sono moltissime donne che hanno combattuto la «giusta battaglia» e oggi sono a capo di grandi aziende e università importanti, e sempre più anche in politica. Ma abbiamo bisogno di averne ancora di più: molte più donne nel sistema giuridico e soprattutto in magistratura, parlamentari e candidate in politica. È un processo lento ma sta avvenendo.
Che direzione prenderà il programma in futuro?
Ho cenato di recente con i King e abbiamo avuto modo di parlare dei possibili sviluppi dello show. Ho detto loro che credo che la forza della storia stia davvero nell’intelligenza, la sottigliezza e l’attinenza con il mondo reale… Abbiamo anche parlato della possibilità di portare la storia in un mondo post-Trump, immaginare come potrebbe essere il «morning after», entrare nella fantapolitica. Ma credo che alla fine abbiano deciso - e ne sono felice - di non andare in quella direzione perché sarebbe una strada senza ritorno. Credo che dovremmo mantenere il tono che ha avuto successo con molta critica, l’umorismo dark che ci contraddistingue. Dopotutto gli autori hanno sempre scritto di attualità anche con The Good Wife, ma ora più che mai mi sembra ce ne sia bisogno.

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