Elio Pecora col suo ultimo e importante libro di versi dal titolo Rifrazioni (pp.156, euro 18; verrà presentato oggi a Pordenonelegge, con Bianca Maria Frabotta, ore 21), edito da Mondadori, sembra chiudere un cerchio che s’era aperto nel 1970 con la prima raccolta dal titolo La chiave di vetro pubblicata da quel grande editore bolognese che fu Cappelli.
IL TITOLO Rifrazioni come lo stesso Pecora fa intendere è stato suggerito da una affermazione sulla poesia di Iosif Brodskij citata in sottotitolo che dice: «È semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o la tenebra si rifrangono». Molto è trascorso da quella data d’esordio, molta ideologia, molte modalità di scrivere, intendere la poesia ma le coordinate linguistiche e di pensiero presenti in quel primo libro - e che Roberto Deidier colse in nota alla riedizione del 2016 (Empiria) parlando di un «ritorno pieno e problematico di quello che Debenedetti aveva definito ’il personaggio uomo’» -, sono come riapparse in Rifrazioni, rimodulandosi però ai nuovi tempi. Qui ogni pagina fa intendere che per fare arte poetica occorre possedere oltre che il talento linguistico-letterario, quella fine capacità anch’essa innata di entrare nelle pieghe della vita, perché proprio partendo di lì che si potrà pensare una lingua capace di avere profondità semantica, spessore metafisico: «La pazienza maggiore l’ha dovuta a se stesso:/ha patito le paure nuove del bambino,/i fantasmi esagitati dell’adolescente,/le saracinesche arrugginite dell’ansia,/il tramutare scomposto delle carni,/i cumuli delle ombre, gli intoppi della memoria./». Ed in questo Elio Pecora è così vicino a Sandro Penna, non linguisticamente e neanche nei contenuti, gli è vicino nella stupefazione dello sguardo, nell’incantamento ammaliante delle immagini di vita.
IL SUO VERSO è così incardinato all’oggi, all’attimo, da renderlo per paradosso non fuggitivo ma presente in una sorta di ora dilatata che abbraccia ciò che fu, ciò che sarà. Difatti la memoria nel libro non è mai astrazione ma materia mobile e incandescente che parte da un punto lontano, traversa i tempi e si presenta in forma di parola per interrogarci sull’oggi, divenendo nella pagina quasi una voce unitaria: «…//È una folla vagante nel chiuso della mente/e qui, fra i verdi che svariano nel giardino d’estate, nemmeno chiamato (il vuoto non comporta rituali) ciascuno in un suo gesto, per una frase breve si mostra:/come sorpreso, sospeso, in un accento, in un cenno/…». Elio Pecora, nella sua lucente tavolozza linguistica, ha messo esperienza di vita che non coincide con quella degli anni, amore immenso per il libro, consapevolezza della precarietà e a bilanciare tutto questo una felicità estrema nell’atto di scrivere.
PROPRIO NEL GIARDINO a Sant’Arsenio, luogo della sua officina creativa, la liturgia del pensiero si fa parola sfogliando quei temi ancor oggi così attuali: la folla, gli oggetti, la solitudine, la fragilità, che sembrano però essere repertori di una classicità greco latina che già a suo modo pensò ed elaborò tutto questo: «Tornato Odisseo a Itaca e al letto di ulivo,/sa che dovrà ripartire e, dopo lungo errare, raggiungere finalmente la terra felice/di dove scendere placato incontro alla morte./…». Veleggiano, nell’ultima parte del libro, certe «parvenze» che sembrano ricordare scrittori che fecero la storia della letteratura come Dario Bellezza, Elsa Morante, Sandro Penna, Aldo Palazzeschi assieme a essi sfilano, gli uni e gli altri indicati con la sola iniziale del nome, donne e uomini anonimi che egualmente concorsero con i loro piccoli gesti a creare una comunità, indicando una strada, una storia; ecco apparirci quasi eterea, la poesia con l’iniziale A.P: «Per l’ascensore c’erano due gradini/e in ciabatte mandava baci/sulla punta delle dita.//Nell’anno di Via delle cento stelle/quel vecchio gentile,/ancora si chiedeva/ ’il valore del dono’./...». La notte di Elio Pecora, spazio così presente e fatale in questo libro, luogo di perdizione e redenzione ma anche di tensione ai misteri della vita e dell’arte sembra divenire talvolta nella riga, luce abbagliante e costellarsi dei colori di una speranza, oltre ogni passata e futura morte, la speranza di incidere felicemente il verso sempre e solo con le lettere della vita.