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Il nuovo Csm, senza cultura di genere

ANTONIO ROTELLIITALIA/ROMA

Abbiamo il nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm), che entrerà in carica a settembre 2018. Tutti i suoi componenti sono stati eletti: 2/3 dai magistrati e 1/3 dal Parlamento, come recita la Costituzione. In tutto i membri sono 24, a cui si aggiungono il Presidente della Repubblica, il Primo presidente e il Procuratore generale della Cassazione. Tutto bene, quindi. Anzi no, tutto male.
Il potere, anche se esercitato nelle forme vere o apparenti della democrazia, ci ricasca sempre e compie scelte che frenano la cultura e la civiltà di questo nostro Paese: nel caso specifico mi riferisco all’assenza o alla poco significativa presenza femminile nelle funzioni direttive o apicali dei nostri uffici e delle nostre istituzioni. Il potere è maschio e tende a conservarsi come tale.
NON CONTA che quello da poco eletto sia il Parlamento con più donne della storia repubblicana (ma la percentuale è molto vicina a quella della passata legislatura, segno che la legge elettorale, con i suoi escamotage, ha ridotto notevolmente gli effetti dei limiti delle candidature per genere) e non conta che il gruppo parlamentare con il maggior numero di donne sia quello del Movimento 5 Stelle.
Su 8 membri laici da mandare al Csm, il Parlamento ha eletto: Alberto Maria, Filippo, Fulvio, Stefano, Emanuele, Alessio, Michele e David. Tutti uomini! E il partito con più donne in Parlamento, ha anche svolto le primarie sul suo sito, inserendo nella rosa dei papabili solo uomini e nessuna donna da far votare ai suoi iscritti.
Con buona pace di chi si ostina a pensare che il Parlamento sia non solo la sede istituzionale dove si fanno le leggi sulla parità di trattamento, ma il primo presidio dove questa si attua.
Per completare il fosco quadro e le tendenze del potere, per il quale sono cambiate le persone che lo incarnano, ma non la sostanza, e quindi non la loro cultura, il Parlamento ha finalmente eletto - dopo quasi due anni da che il posto si era reso vacante - il quindicesimo giudice della Corte costituzionale. E quale donna è stata eletta? Luca, ancora un uomo. Così, dopo oltre 70 anni dalla sua nascita, il Parlamento repubblicano è fermo alla elezione di una sola donna alla Corte costituzionale (nel 2014), dopo una lunga campagna perché ciò accadesse, portata avanti da tante donne, uomini, tra cui il sottoscritto, e associazioni. Ma sembra che sia servito a poco, dal momento che non siamo riusciti a cambiare la cultura del centro della democrazia.
QUATTRO ANNI FA, il Parlamento aveva eletto al Csm 2 donne, che erano già poche, mentre peggio erano riusciti a fare i giudici ordinari votando tra i membri togati 1 sola donna su 16 eletti. Questa volta tra i giudici togati è andata meglio, perché le donne elette sono 4 e così nel complesso, il Csm avrà una donna in più della volta precedente, quando in tutto erano 3. Ma che delusione! Esiste un problema culturale e i numeri lo rendono evidente, ma soprattutto ci sono delle conseguenze che sottovalutiamo.
PER COMPRENDERE la gravità della situazione, bastano alcuni dati statistici. Le donne in magistratura oggi sono il 52% e nei concorsi ormai da un pezzo dimostrano di essere migliori dei colleghi maschi. Nell’ultimo concorso, ad esempio, il 63% delle vincitrici sono state donne.
Ma se si guardano le statistiche degli incarichi direttivi e semidirettivi in magistratura, le percentuali delle donne si invertono, scendendo rispettivamente al 27% e al 36%. E chi sceglie i magistrati a cui affidare quegli incarichi? Il Consiglio superiore della magistratura! Non mi pare possa negarsi che la composizione di genere abbia un impatto a mio avviso determinante su queste scelte. È la storia del potere (maschile) che tende a conservarsi e rigenerarsi.
La stessa cosa vale per gli uffici a giurisdizione o di competenza nazionale, dove le donne sono solo il 33% (tutti i dati che ho fornito provengono dall’Ufficio statistico del Csm e sono aggiornati a luglio del 2017).
Il Parlamento aveva il dovere di scegliere alcune tra le tantissime professioniste che hanno i requisiti per diventare componenti del Csm. Anche in questo caso, i numeri fanno la differenza: le avvocate italiane, anche se di poco, sono più numerose dei colleghi maschi, mentre nel mondo accademico sono donne il 52% dei dottori di ricerca, il 48% dei ricercatori, il 37% dei professori associati, il 22% degli ordinari (dati al 31 dicembre 2016). Il basso numero delle ordinarie è l’eblema del potere maschile, che nelle università si conserva con grande maestria.
MA PROPRIO PER QUESTO, in quel 22% per cento, andavano scelte quelle giuriste e ce ne sono tante - che molto lustro avrebbero potuto dare al Csm. Come vogliamo che le cose cambino, che venga assimilata da tutti la cultura di genere e la sua importanza per ogni questione che interessa il Paese, se il Parlamento e la nuova classe politica dirigente dimostrano ignoranza e tracotanza del potere su questi temi?

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