VISIONI

«Paterno», il mio dipinto tragico di un uomo sul viale del tramonto

AL PACINO - Una storia che evoca l’attuale presa di coscienza sugli abusi sessuali
LUCA CELADA usa/los angeles

Joe Paterno detto «Joe Pa» fu per quarantacinque anni allenatore di football presso la blasonata Penn State. Una leggenda della lega universitaria, titolare del record assoluto per vittorie conseguite (409) e celebre, oltre che per l’accento italoamericano della nativa Brooklyn, per la fama di educatore e filantropo.
Figura olimpica dunque, la cui carriera però si chiude nel 2011 nell’ignominia di uno scandalo che lo lega ad un fatto di pedofilia. Non è Paterno l’indiziato degli abusi (colpevole è un suo subalterno – Jerry Sanduski che verrà condannato per violenze carnali su 123 minori). Sul Ct aleggia tuttavia il lecito sospetto di non essere intervenuto per tempo o con sufficiente energia di fronte a voci di spogliatoio che si scoprirà essere circolate da anni sul conto dell’assistente. Complice un’università ugualmente (o più) responsabile di aver chiuso gli occhi per non danneggiare i profumati introiti dei diritti tv e desiderosa di salvare la reputazione, il mito crollerà al centro di un caso giudiziario e mediatico che anticipa l’attuale presa di coscienza (e l’omertà pregressa) sugli abusi contro le donne e lo scandalo delle molestie a centinaia di ginnaste nella federazione nazionale.
Lo racconta Barry Levinson in Paterno, tv movie d’alto bordo (prossimamente su Sky cinema) che per il regista di Baltimora si inserisce in una recente galleria di anziani antieroi per la premium Hbo compreso Bernie Madoff (Robert De Niro) in Wizard of Lies e sempre per la stessa emittente il «dottor morte» Jack Kevorkian e la sua crociata per l’eutanasia (You Don’t Know Jack) sempre con Pacino nei panni del protagonista. L’attore che per David Mamet aveva anche interpretato Phil Spector nel film sulla sordida vicenda sfociata nel processo e condanna per omicidio del celebre produttore discografico, qui crea un personaggio crepuscolare e quasi shakespeariano in balìa di una rovina che stenta a comprendere, trascinato nell’abisso dalle responsabilità morali e dalla propria stessa coscienza. Per Pacino che aveva già vestito i panni dell’allenatore di football per Oliver Stone (Ogni maledetta domenica) e che ha da poco terminato le riprese con Scorsese su The Irishman, ancora un uomo al tramonto che si volge a contemplare successi, ossessioni e fallimenti di un passato che gli si sgretola in mano come polvere.
Perché questo ruolo?
Mi è parsa un’opportunità per interpretare un personaggio tragico, che si trova alla fine della vita e della carriera a dover affrontare una situazione che non riesce a gestire, una cosa, e un mondo, che non capisce.
Nell’omertà c’entravano gli enormi interessi economici che girano attorno al football universitario?
Sono restìo a parlare di un caso di cui non conosco appieno i retroscena. Ho interpretato due allenatori di football e sono sempre stato un tifoso. Chiaramente, come accade con altri sport tipo il basket, ci gira attorno una montagna di soldi che inevitabilmente finiscono per colorare i giudizi. Nel caso di Paterno lui teneva molto anche ad istruire i suoi giocatori: si fregiava del fatto che l’85% di loro si laureavano.
Ma insomma secondo lei sapeva dei reati del suo assistente?
Sul vero Paterno non posso saperlo, posso parlare per il personaggio come lo ho interpretato. Credo che avesse una vago senso che qualcosa fosse successo, ma che fosse anche restìo a intervenire su una faccenda di cui non aveva il controllo, una deformazione professionale forse per qualcuno che era abituato ad avere l’assoluto controllo su ogni aspetto del gioco. Non credo che fosse in malafede anche perché come si vede nel film aveva lasciato che i propri stessi figli giocassero con l’assistente indiziato. E poi credo che avesse una completa devozione al suo lavoro. Non lo giustifica ma forse lo spiega.
Crede che sia importante oggi più che mai trattare argomenti difficili come questo?
Credo di sì anche perché, come in questo caso, oltre al delitto sono le manovre istituzionali per oscurarlo a essere ancora più gravi. In questo senso la vicenda di Paterno è simile a quella che trattammo in The Insider – Dietro la Verità (di Michael Mann, ndr): la storia paradigmatica di un sistema omertoso e dell’indagine che finisce per smontarlo, come anche nel caso di Nixon e compagnia. Credo ci sia una dinamica ben precisa: un gruppo di persone fa quadrato attorno a una situazione che crede di dover nascondere, monta la paranoia e la situazione peggiora esponenzialmente e finisce per travolgere tutti.
Al centro di questo caso c’era un personaggio amatissimo e stimato da tutti.
Infatti il personaggio ha un’evoluzione interiore che lo porta dapprima a essere infastidito e arrabbiato per quella che considera una distrazione dal suo lavoro sportivo, fino al rimorso e la depressione finale. Dal risentimento alla contrizione. Il mio lavoro è stato rappresentare questo processo, anche molto rapido, in cui si percepivano tutti i conflitti, a volte in una stessa scena. La pressione cui era sottoposto è la stessa che sentono molti leader e in particolare a me ha ricordato alcuni registi. Detto questo non pretendiamo di aver fatto la biografia di Paterno, non penso mai in questi termini. Anche quando raccontiamo la storia di un personaggio pubblico ci avvaliamo della ricerca sui fatti e dei suoi manierismi, come ho appena fatto per Jimmy Hoffa in The Irishman di Martin Scorsese, ma alla fine interpretiamo il personaggio scritto nella sceneggiatura, è a quel testo che rimaniamo fedeli. Non è una documentario, è una storia, non una fotografia ma un mio «dipinto» dell’accaduto e della verità del personaggio.
Come è stato lavorare con Barry Levinson?
Amo il suo modo di allestire l’atmosfera del set in modo che possa accadere di tutto. È questo il bello: l’apertura a ogni possibilità. Ricordo le riprese di Quel pomeriggio di un giorno da cani: ero per strada che conversavo con la folla e un assistente alla regia mi è passato accanto e mi ha suggerito: «Perché non dici ‘Attica’?». E io ho detto: «Cosa? Ma non c’è nel copione…». «E tu dillo, provaci». Così dopo il ciak ho urlato «Attica, attica..» - la prigione dove una rivolta di prigionieri era stata soffocata nel sangue. E la folla ha semplicemente reagito scandendo quello slogan per la cinepresa, e ha finito per essere la scena simbolo del film.
Ricorda le sue prime esperienze da spettatore?
Certamente, ricordo quando mia madre mi portava al cinema poco più che poppante a tre, quattro, cinque anni. Ricordo che mi portò vedere Giorni perduti (di Billy Wilder, ndr.) con Ray Milland, evidentemente mamma aveva larghe vedute (ride). Lei lavorava, voleva stare col suo piccolo ma anche vedersi un film. Non avevamo una televisione, quindi andavamo al cinema. Poi a casa io scimmiottavo tutti gli attori che avevo visto, facevo tutte le parti – per fortuna non è più necessario, me ne basta uno. E ricordo che quel giorno imitai Milland nella scena in cui non riesce a trovare la bottiglia che ha lasciato da qualche parte quando era ubriaco e mette sottosopra la casa. A volte quando visitavamo i parenti mi dicevano: «Sonny fai la scena della bottiglia». Io la facevo e si mettevano tutti a ridere, e io pensavo «ma non è buffo è tragico, il tipo sta male, è disperato, perché ridono?». Dopo ho capito che era perché avevo cinque anni.
Dai tempi dei cinema siamo arrivati quelli delle fiction e dello streaming.
Bisogna adattarsi ai tempi, infatti The Irishman è una produzione Netflix. Abbiamo girato a New York in piena libertà, proprio come sarebbe accaduto in un film di altri tempi con una produzione di otto, nove mesi. E poi ci sono le serie tv, ora con grandi sceneggiatori e attori. Personalmente sono cresciuto con film che hanno un inizio e una fine, è questa la forma d’arte che ho conosciuto, anche se oggi non è più soltanto così. Non sono certo di essermi adattato alle serie, anche se hanno tutto ciò che ritengo importante: scrittura, recitazione. Ma poi invece di finire ricominciano. Non mi sono ancora del tutto abituato.

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