COMMENTO

Mosse spiazzanti del presidente «impolitico»

Dazi e diplomazia
GUIDO MOLTEDOUSA/corea nord/cina

Con due mosse spiazzanti, l’impolitico Trump mette a soqquadro la politica interna e internazionale, alimentando tensioni negli Usa e dando vita a uno scenario fino a ieri impensabile nell’area oggi più importante del mondo, l’Estremo oriente. Le due mosse sono tra loro collegate e hanno di mira innanzitutto la Cina, che, non solo sotto quest’amministrazione, è la potenza che maggiormente impensierisce l’America, sia per quello che è oggi sia per quello che è destinata a diventare domani, con una velocità sempre più impressionante. In un mondo così interconnesso, sia la scelta di alzare i dazi su prodotti strategici come l’acciaio e l’alluminio sia quella di aprire un tavolo negoziale diretto con la Corea del nord, hanno conseguenze e contraccolpi enormi.
Contraccolpi tanto sugli equilibri politici ed economici, quanto su quelli domestici e internazionali.

Al tempo stesso, va valutato l’effetto mediatico dei due annunci, che è stato notevole, conferendo a Trump una rimarchevole statura presidenziale su cui neppure il più audace dei bookmaker avrebbe scommesso un cent. In effetti, se davvero sarà realizzato, il vertice con Kim Jong-Un avrà una portata paragonabile, se non superiore, agli incontri che segnarono il disgelo sino-americano.
Già l’effetto-annuncio ha scatenato la fantasia dei massimi giornali americani con titoli e articoli che parlano di «significativo risultato diplomatico», di «vittoria netta», di «azzardo mozzafiato», di «mossa coraggiosa», di un incontro che si presenta «storico».

La notizia di un summit con il leader nordcoreano stupisce se si guarda alla sequenza in crescendo dello scambio di minacce tra Pyongyang e Washington, con tanto di pistole nucleari in vista sui tavoli di Kim e di the Donald. Eppure, alla luce della logica geopolitica, non meraviglia che la Corea - le due Coree che cominciano a fare passi significativi insieme, non solo simbolici - e gli Stati uniti condividano lo stesso obiettivo: il contenimento della superpotenza cinese. E’ lo stesso «schema» che ha portato a una convergenza intensa tra Vietnam e America, pur con il loro terribile retaggio di centinaia di migliaia di morti di una lunga e crudele guerra.
Uniti contro Pechino, dunque. Per parlare con Kim Trump non ha bisogno della triangolazione cinese, come hanno fatto i suoi predecessori. Forse è prematuro saltare alle conclusioni ma che si vada nella direzione di un ridisegno radicale della mappa estremo-orientale, è evidente.

Che avvenga con Trump, il presidente allergico al gioco internazionale, neppure questo deve stupire. La politica di Trump in chiave di contenimento della Cina scaturisce dallo spirito autoreferenziale e nazionalistico che caratterizza il suo pensiero.
Ed è in linea con la politica protezionistica, promessa nella campagna elettorale e messa in atto nei giorni scorsi, con le immagini emblematiche della sua firma delle nuove misure doganali sotto lo sguardo compiaciuto di operai metalmeccanici in tuta da lavoro.
Pur clamorosa, l’iniziativa di imporre dazi, avviando una dura politica protezionistica, ha conseguenze più dirompenti di quella diretta alla Corea del nord.

Trump scompagina gli schieramenti politici ed economici, innanzitutto nel suo stesso perimetro.
Il «Buy American» ottiene il plauso degli operai degli stati della «fascia della ruggine», dell’America colpita dalla deindustrializzazione, ha l’elogio sperticato dei capi dell’industria siderurgica e del leader del sindacato Afl-Cio, il tosto Richard Trumka, e ha l’approvazione dei big del Partito democratico degli stati più interessati, Bob Casey della Pennsylvania, Joe Manchin della West Virginia e Tammy Baldwin del Wisconsin. Sono senatori in corsa per la rielezione a novembre.

Gli «improbabili alleati», come dice NBC News, sono ancora più improbabili se si guarda al ginepraio in casa repubblicana, dove le misure a favore dell’industria siderurgica che riguardano solo alcuni stati e neppure centoquarantamila lavoratori, hanno riflessi su gran parte degli altri stati e degli altri comparti economici, non solo quelli produttivi intercorressi con le importazioni, ma anche la grande distribuzione, che vedrà lievitare i prezzi al consumo, essendo tanti i beni d’importazione o prodotti all’estero. Riflessi che avranno conseguenze anche sui titoli in borsa.
La guerra commerciale dichiarata dal presidente ha ancora una volta come platea di riferimento la sua base elettorale non l’establishment repubblicano, doppiamente spiazzato dallo schieramento a favore del presidente di pezzi da novanta democratici come Casey, Manchin e Baldwin.
Con l’aggiunta, anche questa «improbabile», di una stampa che per la prima volta non sembra ostile nei suoi confronti, come lo è stata finora. Sta cambiando qualcosa senza che ce ne accorgessimo, in America? Possibile. Ma sappiamo anche che in men che non si dica, Trump potrebbe tornare a essere il «The Donald» di sempre.

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