POLITICA

Lavoro e molestie, una battaglia comune scatena l’8 marzo

«Liberi corpi in libera terra», per dire no alla violenza maschile Non Una Di Meno in corteo da Bologna a Palermo
ALESSANDRA PIGLIARUITALIA/ROMA

Da Piazza Vittorio passando per Piazza Maggiore, via Cavour e poi Piazza Madonna del Loreto, la marea di Non Una Di Meno è arrivata nelle strade di Roma ieri pomeriggio, cominciando intorno alle 17 il corteo preparato da mesi. Altre sono state le piazze ieri che, un po’ in tutta Italia, hanno rappresentato la costellazione ormai solida delle varie realtà presenti da Venezia a Napoli, e ancora Bologna, Torino, Milano e molte altre che - con azioni, blocchi e contando sul sostegno dei sindacati (Usb, Slai Cobas, Usi e Usi-Ait), hanno portato in piazza e nello spazio urbano decine di migliaia di donne. La novità del corteo romano è che, più dell’anno scorso, la presenza degli uomini è stata più consistente. Un’assunzione delle istanze femministe, reti e gruppi misti che lavorano in tante città italiane tenendo tra le priorità i punti che sono comuni al movimento globale in più di 70 paesi.
«Se il lavoro è molesto, molestiamo il lavoro»; «Se non te la dà non te la prendere»; «La nonna partigiana ce l’ha insegnato: il vero nemico è il patriarcato»; «L’assassino ha le chiavi di casa». Sono solo alcuni degli slogan presenti alla manifestazione romana, circondano una narrazione che in questi mesi si è svolta nei vari tavoli di lavoro, nelle 57 pagine del piano femminista antiviolenza e si collocano nella sostanza politica dei centri antiviolenza - presenti anch’essi in piazza -, nei consultori e nelle associazioni - «BeFree», solo per citare una di quelle più attive soprattutto in città - che raccontano la storia capillare di una lotta con radici ben piantate nei territori.
L’altra faccia del corteo, ovvero l’ulteriore declinazione che assume la violenza maschile contro le donne, è la molestia sessuale. Sul posto di lavoro come per strada o nelle relazioni quotidiane, la tormenta che si è sollevata a partire dalla intervista rilasciata da Asia Argento il 12 ottobre scorso non ha cessato di mostrarsi. Espandersi e diffondersi. E se uno dei punti più drammatici - andati a detrimento di quanto si andava rivelando - è stato il discredito, il fango quando non la canzonatura mista a una importante (quanto inguaribile) misoginia che genera cecità politica oltre che relazionale, quando l’attrice e regista italiana si è unita al corteo di Non Una Di Meno vi è stata la congiuntura cercata e trovata in questi mesi.
«Sorella, io ti credo», così recitavano molti dei cartelli che portavano dal #metoo al #wetoogether - nella forma di una collettiva azione di lotta. Dire alla propria sorella che le si crede non indica tuttavia una immersione in una comune e immedicabile oppressione, al contrario sta a significare che quei «liberi corpi in libera terra» hanno il desiderio di vivere felici, non più di contarsi da sfruttati o - che è peggio - da morti, anzi vogliono essere in prossimità con le proprie simili e in ascolto di quella straordinaria forza che è la presa di parola pubblica. «Avete fatto gossip sui nostri stupri, vergognatevi» ha detto seccamente Asia Argento, affiancata dalla collega Rose McGowan, ad alcuni reporter presenti invitandoli ad andare via.
Altro punto cruciale, come l’anno scorso ma quest’anno dotato di una drammatica evidenza elettorale, è la parola antifascismo. In certi ambienti sarà pure gratuito ricordare di essere contro i fascismi e che Non Una Di Meno si dispiega come insorgenza antifascista e antirazzista, ma di questi tempi è invece efficace tornare all’essenziale di poche e necessarie parole. Perché situano in una storia che va interrogata, ancora e ancora.

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