VISIONI

Piano, basso e batteria, la magia Gogo Penguin

ALTERNATIVE JAZZ
VALERIO CORZANIgb

Tra i tanti modelli sonori che hanno agitato la multiforme scena degli stili musicali del terzo millennio c’è anche quello che ha chiuso il cerchio tra le istanze del jazz e quelle del pop-rock, dimostrando però quanto fosse fruttuoso e urgente provarci. Uno degli organici che si è messo più alla prova da questo punto di vista è quello del «classico trio jazz»: piano, basso, batteria. Un organico che nello scorso secolo ha avuto esemplificazioni di memorabile efficacia poetica, basti pensare alle varie declinazioni di questo trio nella biografia professionale del grande Bill Evans, di Art Tatum, Keith Jarrett, Michel Petrucciani. Eppure queste ingombranti referenze non hanno scoraggiato nuovi virgulti che, a partire dal 2000 o giù di lì, hanno deciso di affrontare ancora una volta i panorami sonori praticabili con questo organico. Trasformandoli. Se infatti la formula è trita, o meglio mainstream, la forma non lo è affatto. Il trio piano-basso-batteria ha trovato negli ultimi anni una serie di declinazioni che ne hanno rinnovato l’approccio e il look sonoro: dal trio di Esbjorn Svensson ai The Bad Plus, dal Rusconi Trio al New Zion Trio, fino agli italiani Chat Noir….
GLI INGLESI GoGo Penguin in questo senso entrano dalla porta principale (ovvero dall’etichetta Blue Note) nel 2016 con un album, Man Made Object, che gli consente di uscire dalla ristretta cerchia della scena alternative-jazz di Manchester e di puntare poi con A Hundrum Star ad allargare ulteriormente il loro bacino di pubblico. E, se ci dobbiamo basare sulla folta e plaudente audience che è accorsa per ascoltarli al Monk di Roma qualche giorno fa, dobbiamo dedurre che la mossa stia cominciando a produrre gli effetti voluti. Dal vivo i tre hanno sciorinato praticamente tutti i brani del nuovo album, con qualche sparuta escursione nel repertorio del primo. Le linee melodiche del pianista Chris Illingworth scelgono un itinere sostanzialmente iterativo con poche note ribattute, qualche bordone di tastiera e un fraseggio antiesibizionistico; il bassista Nick Blacka regala al suo contrabbasso un suono da basso elettrico potente e ruvido; mentre al batterista Rob Turner tocca di scompaginare definitivamente l’«oleografia» del trio con un approccio al drumming che ricorda quello di Philip Selway. «Molti dei pezzi di questo album sono iniziati come composizioni elettroniche che ho creato con sequencer», afferma lo stesso Turner, «li ho poi proposti alla band trovando il modo di riprodurli acusticamente». Il risultato finale è proprio questo: il digitale come simulacro, che si staglia alle spalle di un banchetto acustico.

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