POLITICA

Paura, sospetto, odio: i giorni da incubo di una tranquilla provincia italiana

REPORTAGE
LUCA PAKAROV italia/Macerata

L’equilibrio è fragile e a ogni ora si temono altri inaspettati risvolti. Per le vie si cammina guardinghi, a ogni sirena della polizia un fremito, gli immigrati africani abbassano gli occhi e tengono i figli in casa. A tre giorni dalla tentata strage il clima di Macerata è tesissimo, con le forze dell’ordine a pattugliare giorno e notte l’ingresso della città, posti di blocco, elicotteri sulla testa e schiere di giornalisti in strada.
Ci si sente sotto una cappa irrespirabile, con gli occhi puntati addosso e dove nascono di continuo frizioni tra coloro che fino a ieri si frequentavano allo stadio o al bar. Sembra che questo laboratorio sociale chiamato provincia stia dando i suoi frutti, diventando un megafono di ogni umore del Paese. Qui vengono i fascisti a manifestare per la legalità e i politici a farsi foto, qui vorrebbero inviare più poliziotti malgrado il basso tasso di delinquenza, qui arriva il ministro degli Interni e quello della Giustizia, qui c’è chi vuole resistere e con tanta pazienza spiega e rispiega perché Pamela e Traini siano due storie diverse.
Da un giorno all’altro ci si sente costretti a scegliere da che parte schierarsi, senza un dibattito, un ragionamento. Chi martedì sera è andato alla fiaccolata per Pamela si sente diviso e non comprende chi sabato avrebbe voluto partecipare alla manifestazione antifascista. Chi oggi avrebbe voluto manifestare con Forza Nuova crede che i migranti, malgrado le statistiche reiterate da ogni dove, abbiano invaso la città, deturpandola e rendendola pericolosa. Il sindaco ha di fatto sospeso ogni manifestazione. Sempre martedì alcuni hanno manifestato davanti al bar Venanzetti dove per ieri era stata indetta la conferenza stampa di Casa Pound. Qualcuno afferma che forse c’è un lato positivo, che finalmente le maschere di chi ci vive attorno sono cadute.
La provincialissima Italia, periferia d’Europa, e la provincia del Paese, appaiono ora accumunate da un unico destino incattivito. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato. All’inizio si avvertiva soprattutto nella personalissima provincia di ognuno, quella dei social, con i propri gruppi, i 200 o 3mila contatti, dove affioravano posizioni sempre più radicali. Ma l’odio che una volta sembrava costruito su sole chiacchiere, da quando si è materializzato è diventato un leviatano implacabile e oggi esprimersi anche sui social diventa complicato, perché in provincia poi ci si incontra, ci si conosce. E allora non guardi e non saluti più allo stesso modo chi ha scritto quello o detto questo. Non guardi più allo stesso modo chi, anche solo per sbruffonaggine e analfabetismo, ha solidarizzato con Traini. Da un lato si ha l’eccitazione, la necessità di esprimere la propria opinione, dall’altra si vorrebbe attenuare ogni input, tornare nell’oblio e frenare questa voragine che ci si sta aprendo sotto i piedi.
Stiamo pagando un prezzo elevatissimo. Gli ultimi trent’anni di scellerata politica italiana siano arrivati al pettine proprio qui, ora, nella placida provincia. Traini senza saperlo ha alzato il sipario su una spaccatura profonda, che non si potrà rinsaldare con una scheda elettorale. Ci si domanda perché nella sua prima foto in caserma gli è stato appoggiato sulle spalle il Tricolore? Perché ha potuto girare quasi due ore percorrendo la mappa dei luoghi che riteneva ostili, fino a che non ha deciso di costituirsi con un gesto tronfio di significati? Perché possedeva una Glock? Potrebbero sembrare inezie se non fosse che in questo momento ogni particolare è essenziale per orientarsi, per rispondere alle domande di domani o semplicemente a quelle del tuo collega che ritiene comprensibile che qualcuno si possa incazzare. E in questo mondo al contrario, la Lega guadagna punti di consenso invece di soffrirne e, attualmente ci si può scommettere, Traini candidato prenderebbe migliaia di voti.
Poi escono fuori belle storie, come quella accaduta nella scuola dove presto servizio. Sabato gli studenti di una quinta classe al ritorno da teatro, quando già era scattato l’allarme rosso, nel tratto dalla fermata dell’autobus all’ingresso della scuola, volontariamente si sono messi in gruppo intorno alla loro compagna afroitaliana facendole scudo, nascondendola, dopo averla coperta con sciarpa e cappello. In quel momento è passato Traini con il braccio teso fuori dal finestrino. Sono gesti che scaldano, che ti autorizzano a pensare che non tutto sia perduto.
Pare anche che quella mattina Traini abbia puntato la sua pistola contro un ragazzo nero che usciva dal supermercato. Però si conoscevano e ha abbassato l’arma, salutandolo. Ma nemmeno è possibile capire se quest’ultimo racconto sia reale perché ormai la narrazione del vero è andata a farsi benedire. Mille storie che si rincorrono e si trasformano e cambiano direzione con un soffio di vento. Senza esagerare, a volte si ha la sensazione di essere a Sarajevo negli anni in cui, da un giorno all’altro, i tuoi vicini, i tuoi amici, i padri dei compagni di gioco di tuo figlio, se ne vanno e dalle colline ti sparano addosso.

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