CULTURA

Come disfare la banalità del male

Intervista con Piotr M. A. Cywinski, direttore del Museo di Auschwitz
GUIDO CALDIRONpolonia/auschwitz

«Memoria, consapevolezza, responsabilità». Nel tracciare le coordinate del suo lavoro come direttore del Museo-Memoriale di Auschwitz-Birkenau, creato dove esisteva il più grande campo di sterminio industrializzato del Terzo Reich, ma un luogo assurto anche a tragico simbolo dell’intera barbarie nazista, lo storico polacco Piotr M. A. Cywinski non ha mai avuto dubbi. Come ha spiegato in Non c’è una fine (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15), «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Il senso di questo ricordo interpella perciò in maniera radicale il presente come il futuro, ciò che si compie ancora oggi nell’indifferenza dei più, il ruolo e le responsabilità della «civile» Europa che in quel luogo perse, definitivamente, la propria innocenza. Altrettanti interrogativi che riecheggiano nel Giorno della Memoria.
Dal 2006 lei guida il Memoriale e il Museo di Auschwitz-Birkenau, quali le sfide più importanti con cui si è dovuto misurare?
Un sito di tale vastità pone a chi se ne deve occupare molte sfide, e di diversa natura. Richiede allo stesso tempo una sorta di attenzione tecnica costante e una delicata preoccupazione emotiva. Il tutto, cercando di mantenere un approccio storico e morale onesto.
Sul piano concreto, la responsabilità maggiore è stata certamente quella di definire e far sì che si mettesse in pratica un meccanismo di finanziamento dei lavori di conservazione che è essenziale per il futuro. Allo stesso modo si è trattato di impegnarsi per mantenere l’autenticità del sito, vale a dire ciò che ne fa un luogo sacro e che «parla» ai visitatori. Questo perché i milioni di persone che vengono ogni anno ad Auschwitz (50 milioni fino a oggi, nda) non lo fanno con lo spirito di chi si reca a visitare un qualunque museo. Sperano di compiervi il proprio rito di passaggio, di avvicinarsi il più possibile alla comprensione dell’essere umano, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Lei ha scritto che questo luogo non deve smettere di «urlare», non può essere né normalizzato né pacificato in alcun modo. Corriamo concretamente questo rischio?
Senza dubbio. A lungo termine il rischio è evidente. Oggi, gli strumenti di tortura del Medioevo sono esposti nelle fiere di paese per suscitare la curiosità dei bambini. Un’evoluzione decisamente macabra.
Perciò, la grande sfida è far comprendere che Auschwitz non rappresenta un avvenimento tra i tanti lungo un ampio asse temporale della storia europea. Auschwitz è un punto di non ritorno. Gli enormi sforzi compiuti dopo la Seconda guerra mondiale nella prospettiva della creazione di un mondo più umano, da un punto di vista giuridico, politico, culturale, economico e religioso, rappresentano dei passi senza precedenti nella nostra cultura, ma è proprio la comprensione di ciò che è stato Auschwitz che rappresenta la chiave per comprendere fino in fondo il valore e il significato di questi cambiamenti. È sinceramente impossibile capire cosa è accaduto dopo il 1945 senza vedere nella Shoah un punto di svolta totale nella civiltà europea.
Nel suo libro ha sottolineato come la voce dei sopravvissuti e il Memoriale siano i due pilastri della narrazione di Auschwitz. Con il tramonto dell’«era del testimone» che ruolo sarà chiamato a svolgere quello che lei chiama a giusto titolo il «Luogo»?
Il Luogo rende i racconti dei sopravvissuti più credibili. Esattamente come queste testimonianze rendono il Luogo più comprensibile. È un’esperienza totalmente diversa visitare Auschwitz dopo aver letto Primo Levi, Shlomo Venezia o Elie Wiesel. E la lettura di queste pagine diviene qualcosa di differente quando si è camminato sulla stessa rampa di cui parlano, quando si è entrati in una delle baracche che vi sono descritte, o quando si è passati sotto l’insegna che recita: «Arbeit macht frei». Perciò, nella percezione di tutti, Auschwitz deve e dovrà funzionare in qualche modo anche in futuro all’unisono con le voci dei sopravvissuti. Per questo continuiamo a raccogliere e pubblicare le loro testimonianze.
Il suo ufficio è vicino al punto in cui termina abitualmente la visita al «campo». Milioni di persone, soprattutto giovani, prendono parte ai viaggi della memoria che rappresentano uno dei modi in cui negli ultimi anni molti si sono misurati con quanto accaduto ad Auschwitz e, più in generale, con la Shoah. Cosa legge nei loro volti al momento di lasciare il sito e cosa crede porteranno con sé dopo questa esperienza?
Le persone che vedo ogni giorno ad Auschwitz sono molto diverse tra loro. Questi giovani vengono da società, paesi e continenti differenti. E hanno ovviamente vari e diversi punti di riferimento. Ciò che mi sta davvero a cuore è che dopo aver fatto questa esperienza, nell’immaginare il proprio futuro e il ruolo che intendono svolgervi, varchino la soglia della memoria per acquisire grazie a ciò che hanno visto e sentito qui una visione della propria responsabilità individuale. E perché questo accada credo vada fatto anche un vero lavoro educativo sia prima che soprattutto dopo la visita.
La storia da sola non è sufficiente, va legata all’etica e all’educazione civile. Abbiamo un dovere nei confronti delle nuove generazioni: offrire loro tutti gli strumenti perché possano diventare degli adulti consapevoli.
Elie Wiesel, scomparso lo scorso anno, definiva Auschwitz come il «luogo della verità» e spiegava come ricordare non sia sufficiente, ma vada compreso e trasmesso come la Shoah abbia avuto luogo grazie all’azione e all’indifferenza di tanti, facendo sì che la memoria sia messa in questo modo al servizio di una presa di coscienza. Non crede si tratti di una lezione che dovrebbe tornarci utile oggi che nuove forme di discriminazione e di indifferenza circondano le sorte dei migranti in Europa e le vite di tante vittime della guerra alle porte di casa nostra?
È proprio per questo che rinchiudere la Shoah nello spazio della storia non è sufficiente. Il grido delle vittime non è unicamente un grido che ci arriva dalla storia. È un grido morale, etico, civile. E se qualcuno pensa che provare che un «fatto» è avvenuto sia sufficiente, si sbaglia di grosso. È riflettere sul senso, sul significato di quel fatto, per me e oggi, che rappresenta la vera posta in gioco, se vogliamo approdare a una nuova comprensione della responsabilità che pesa su ciascuno di noi. La nostra indifferenza di oggi ci accusa ancor più di quella del tempo della guerra. Da un lato sappiamo ormai fin troppo bene quale sia il prezzo di questa indifferenza, dall’altra, i nostri strumenti di azione sono di tutt’altro livello rispetto a quelli del passato.
E, elemento che aggrava ancor più la nostra situazione, viviamo in società che conoscono la pace da lungo tempo. È facile dispiacersi per un mondo che non ha fatto abbastanza durante la Seconda guerra mondiale. Ma questo sentimento può essere considerato sincero solo per chi si sforza di fare tutto il possibile ora. Ci saranno in futuro musei dedicati all’ondata di profughi o alla tragedia dei Rohingya in Birmania. E allora saremo tutti noi ad essere considerati responsabili di quanto accaduto.
Nelle nostre società si torna a parlare di «difesa della razza bianca», si denuncia la presenza dei musulmani come un «corpo estraneo», riecheggiano parole d’ordine fasciste e slogan antisemiti, come accade anche nella sua Polonia. Se, come lei ha scritto, ad Auschwitz l’Europa si è perduta, come ripartire da questa presa di coscienza per fare fronte alla nuova barbarie che monta?
Ovunque, nelle nostre società si assiste a una recrudescenza dell’estremismo e della xenofobia. Un fenomeno che è ancor più che inquietante e che chiede si moltiplichino gli sforzi e la presenza sul piano pubblico ed educativo. In questo senso, stiamo sviluppando il lavoro sulla rete, ad esempio attraverso una rivista internazionale (memoria.auschwitz.org) e abbiamo appena lanciato una grande mostra itinerante su Auschwitz destinata nei prossimi anni ad essere esposta nel Vecchio Continente come negli Stati Uniti.

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