CULTURA

Sfumature noir nella coscienza che non fa i conti con il passato

Intervista con Harald Gilbers, autore del libro «I figli di Odino», per Emons
GUIDO CALDIRONgermania

L’ex commissario di polizia Richard Oppenheimer, rimosso dall’incarico perché ebreo, ma scampato ai campi della morte grazie al matrimonio con un’«ariana», indaga sui crimini ordinari che si compiono nella capitale del Terzo Reich mentre la fine della guerra si avvicina e il progetto di sterminio si compie. Grazie alla propria formazione storica, lo scrittore tedesco Harald Gilbers ha fatto della trilogia noir inaugurata lo scorso anno con Berlino 1944, a cui si aggiunge ora I figli di Odino (Emons, pp. 412, euro 16), una sorta di inchiesta sulla società che produsse il nazismo e sui meccanismi che assicurarono al regime hitleriano un vasto consenso.
I suoi romanzi hanno un forte impianto storico, ciononostante c’è una domanda che si impone: come si può indagare il nazismo attraverso la «crime novel»?
L’era nazista è nota per i crimini contro l’umanità che vi furono compiuti, ma contemporaneamente si deve tenere conto anche del fatto che il regime fece leva sugli istinti più bassi della popolazione per i propri obiettivi. I delinquenti comuni venivano puniti severamente mentre il partito di Hitler creava una società in cui i crimini più abbietti prosperavano e dove perfino spiare i vicini e i familiari era incoraggiato e premiato. Un sistema omicida di cui gran parte della popolazione tedesca si rese, a vario titolo, complice e che può essere per certi versi svelato indagando semplicemente su come funzionasse la società dell’epoca.
Tra i berlinesi del romanzo sembra crescere la consapevolezza sulla sorte toccata agli ebrei nei lager. I «tedeschi ordinari» sapevano dell’Olocausto?
Quel che è certo è che era possibile ottenere informazioni su quanto accadeva, ma poche persone hanno cercato di scoprirlo, perché erano convinte che comunque gli ebrei sarebbero stati uccisi e non gli importava granché. Nelle grandi città come Berlino c’erano numerose guardie dei lager che tornavano a casa per le vacanze e raccontavano almeno in parte ciò che accadeva lì. Più difficile avere notizie per chi viveva nelle aree rurali. Poi, mano a mano che i russi liberarono i «campi» dell’Est, tutti arrivarono a sapere. Le stazioni radio straniere avevano già cominciato da tempo a trasmettere rapporti sulle camere a gas in lingua tedesca. Era vietato e punito ascoltare quelle trasmissioni, ma c’era anche chi si illudeva che la Germania non potesse essere responsabile di simili orrori, chi pensava che si trattasse della propaganda del nemico e chi non voleva ammettere a se stesso qualcosa che in fondo aveva sempre saputo.
Uno dei personaggi, l’ufficiale medico delle SS Erich Hauser, responsabile di terribili esperimenti sui prigionieri di Auschwitz, che ricorda Mengele, immagina di poter lucrare a guerra finita sulle sue ricerche. Un modo per sottolineare come più che dei mostri isolati, furono molte le figure di professionisti che si affermarono grazie alla violenza del Terzo Reich, cercando in seguito di accreditarsi presso i vincitori?
Tendiamo a concentrarci su delle figure terribili, trascurando il fatto che personaggi come Mengele erano in realtà parte di un sistema più grande. Dal mio punto di vista, è questo l’elemento su cui riflettere. La «ricerca medica» disumana nei campi di concentramento era coordinata con istituzioni all’epoca molto rispettate come l’Istituto Kaiser-Wilhelm di Berlino che ha legato il suo nome alle campagne di selezione genetica e igiene razziale: vale a dire uccidere o sterilizzare altri esseri umani considerati inferiori. L’intero sistema dell’istruzione e della ricerca era corrotto dalle idee naziste, come il resto dell’apparato statale. In seguito, durante la Guerra Fredda, quando la Germania ovest è diventata parte integrante del blocco occidentale, figure del genere hanno messo a disposizione degli americani le proprie competenze. Wernher von Braun, uno degli inventori dei missili V2, e che lavorava alle armi segrete di Hitler, è finito alla Nasa. Dopo il 1945, il complesso industriale tedesco divenne una delle principali fonti di orgoglio nazionale, e lo è ancora oggi, e i suoi stretti legami con il nazismo furono presto dimenticati.
Tra i suoi progetti c’è una nuova serie noir che esplora il periodo tra la caduta del nazismo e l’inizio della Guerra Fredda: quanto rilievo viene dato al tema della «continuità»?
Sarà il cuore di questi romanzi. Le élite che aiutarono Hitler a raggiungere il potere hanno continuato ad avere una grande influenza nel paese anche dopo la caduta del suo regime. Si parlerà, tra le altre cose, dell’«Organizzazione Gehlen», il precursore del servizio segreto della Rft, formata da molti ex SS. La serie si svolgerà tra il 1946 e il 1949, quando furono fondati i due nuovi stati tedeschi: gli anni che videro fallire il tentativo di denazificazione della società tedesca. Una gran parte della popolazione pensava ancora che Hitler fosse stato un buon statista e che avesse avuto ragione a colpire gli ebrei. Questa profonda continuità delle coscienze fu messa in discussione solo dal Sessantotto, quando la nuova generazione chiese conto ai propri genitori di cosa avevano fatto durante il nazismo.
Grazie alle affermazioni elettorali della nuova destra, nazionalismo e revisionismo storico tornano nel dibattito pubblico tedesco, come reagisce il mondo della cultura?
Si deve essere consapevoli della propria responsabilità politica. Non puoi cambiare il mondo con un romanzo o un film, ma puoi contribuire a creare un clima che contrasti la diffusione della malattia nazionalista. Di fronte all’avanzata dell’Alternative für Deutschland, abbiamo diffuso le foto di molti scrittori che spiegavano di votare contro quelle idee. Poi, però su Facebook ho scoperto che alcuni dei miei lettori avevano votato per l’AfD e ho capito che è più facile arrivare a queste persone attraverso quello che scrivo che attraverso le mie opinioni. Credo che la chiave sia raccontare cose che invitino a riflettere, piuttosto che dispensare delle prediche.

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