CULTURA

Quei versi affollati. Cartografie politiche della vulnerabilità

POESIA
GUIDO MONTIITALIA

Nel libro di Massimo Triolo, Acini di sangue, edito da Ensemble (pp.124, euro 12) ecco apparire subito tra le pagine un uomo che anzitutto fa già del suo vivere quotidiano una ars poetica che mai però diviene cliché o maniera fin de siècle.
SENTIRE POETICO quindi da intendersi nel modo d’essere, scavare i rapporti, talvolta sublimarli, vivere la flânerie, questa sì sempre valida, cogitando al modo filosofico e intuitivo assieme. E la pagina, proprio in virtù del rimando autentico d’esperienza, appare priva di retorica anzi è proprio la vita a essere macerata e poi riassemblata in una versificazione che sembra restituirci la dimensione oggettiva dei giorni, contenitori del sublime e dell’orrido, dell’infelicità tout court ma anche di certa felicità che riesce ad aggrapparsi ai giorni, nei modi di un sorriso, anche dentro certe fini imminenti: «Lo vedo appassire/ come una pianta bruciata al sole/ .Vedo il suo volto incartapecorito, tutt’occhi,/ sporgersi dalla finestra come a cercar respiro/…/ ogni qualvolta vado a comprare le sigarette,/ so che lui è lì alla finestra,/ che trema come un fuscello,/ e sembra rimpicciolirsi ogni giorno che passa». Triolo riesce nelle sue pagine a fondere i fatti grevi di una collettività, alle microstorie individuali che si alzano invece leggere, potremmo ancora dirle esistenziali, quasi non vi sia divisione tra i due piani pubblico e privato dove l’uno entra nell’altro. Vi sono delle strofe a leggerle, così rarefatte e prive d’ossigeno, che sembra d’essere nelle stanze oscure di certo Céline, dall’autore stesso citato, o del memorabile Baal di Brecht.
VERSI quindi privi di appigli, rifugi dogmatici ma proprio per questo così lucenti e ariosi: «Oh Cristo!, sono rincasato ed ho salito le scale/ fino alla stanza,/ era ancora in piedi, seduta vicino alla finestra, le sue preghiere si diffondevano come incenso/ …/ mi ritrassi nell’ombra del corridoio/ per non incrociare la riprovazione del suo sguardo,/ lasciandola alle sue folli cantilene religiose».
Il poeta avverte con chiarezza nel libro gli «ordegni novecenteschi» della machenschaft, della macchinazione, che premono secolarmente sulla società per irrigidimentarla e ingabbiarla attraverso sistemi educativi che sopiscano sin dall’inizio le magnifiche immagini vitalistiche e potenziali dell’infanzia; quasi all’ortodossia dogmatica dei tempi, si frappone nella pagina una eterodossia poetica di lotta: «Ho studiato in una scuola blasonata, eravamo noi tutti una forma di investimento,/ così ci ripetevano i suoi scherani dell’a-b-c/ …/ Ho imparato l’algebra, la Storia, la biologia, il latino,/ un po’ di Filosofia…/ mi hanno inculcato idee reazionarie, è questa la verità!».
E L’AUTORE in questo libro è anche molte identità, molti altri da sé, tutti davvero vissuti, molti Bernardo Soares, pur mantenendo la dirittura dell’alto sentire poetico che avvolge ogni sua vita, vuole abituarci a un ensemble di voci ognuna con un diverso spartito; il tempo delle varie identità che vivono e lottano nel suo spirito, quello dell’amicizia ideale come nella poesia dal titolo «Io ed Emanuele» che stride con le molte e generiche frequentazioni, il tempo sanguinante dell’amore e poi quello della incipiente morte psicologica dell’io che non parla più con lo spazio di fuori: «Conosci quella paralisi,/ quella morte viva/ che chiede ancora letto?/ Conosci quel buio dentro/ e fuori dal letto?/ "Lasciatemi stare, non funziono più!/ Sono vivo quel tanto/ che basta a farmene pentire…/ Quel tanto d’occhio e respiro/ che nel letto voglio far tornare"».
È questa di Acini di sangue una scrittura assolutamente esperienziale, non è fatuo gioco di parola, altisonanza, anzi la sua forma talvolta protonovecentesca, per paradosso, scavalca tutto il Novecento venendoci qui a parlare, libera e attuale, mettendo brechtianamente sempre il dito nella piaga di questa società lacerata nelle sue ataviche debolezze ma anche cogliendo certi effimeri lampi di bellezza: «Ho visto una madre ravviare riccioli d’oro./ L’ho vista accosciata/ che sistemava il vestitino alla buona/ di un bambino dai capelli lunghi:/ …/ un bambino dal riso incantevole e perfetto/ come l’idea di un cerchio,/ che giocava a stringere in pugno i fiocchi di neve».
MASSIMO TRIOLO, consapevole del ruolo di battitore libero, che il poeta deve ancora avere nella società, è qui nel libro a testimoniarlo facendo giocare in un colpo di dadi e rimescolando la vita con la scrittura, come se tutto fosse sempre in bilico tra creazione lirica e sua rappresentazione materiale; eccolo nelle ultime pagine rendere omaggio proprio a lei, la poesia, come alla vera unica amante: «Ci sei. Sei la parola che cambia significato al mio verso-/ disteso e agonico-/ che tutto se ne imbeve in un più alto senso/ e nel sollievo».

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