VISIONI

Il valore politico della protesta tra gli atleti oggi

SPORT
LUCA PISAPIAcorea sud/Pyeongchang

La 23a edizione delle Olimpiadi Invernali, che cominciano tra un mese nella contea di Pyeongchang, Corea del Sud, sarà ricordata come una delle edizioni più politiche di sempre. Almeno per quel riguarda gli atleti americani in gara. Lo sport è sempre stato politica, lo era nell’antichità come prosecuzione della guerra con altri mezzi, lo è rimasto una volta diventato industria culturale: vedi le Olimpiadi di Berlino del nazismo nel ‘36 o i Mondiali della Junta militar in Argentina nel ’78.
È stato anche strumento politico, dai pallanuotisti russi e ungheresi che se le danno di santa ragione alle Olimpiadi del ’56, pochi mesi dopo che i carri sovietici entrano a Budapest, agli incontri di ping-pong tra americani e cinesi che preparano l’incontro tra Nixon e Mao. In tutto questo, però, gli atleti hanno raramente avuto voce. La vicenda di Jesse Owens, che vince contro Hitler, è stata mitizzata a posteriori, e anche male visto che poi si è scoperto che chi si rifiutò di stringergli la mano fu Roosevelt e non il Führer. E anche la titanica figura di Muhammad Alì è stata espunta delle trame sovversive.
OGGI PERÒ, grazie all’effetto Trump, a mezzo secolo di distanza dalla protesta di Tommie Smith e John Carlos, il pugno chiuso alzato sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi del ’68, qualcosa è cambiato. Ha cominciato Colin Kaepernick, l’ex quarterback dei 49ers che durante le esecuzioni dell’inno nazionale si è rifiutato di alzarsi in piedi in solidarietà con le rivendicazioni dei movimenti per i diritti civili, trascinando nella protesta stelle assolute del suo e degli altri sport. Il suo merito, oltre ad aver portato Black Lives Matters nell’ovattato mondo dello sport, è stato di mettere in primo piano la figura dell’atleta pensante.
Oggi uno dei giocatori più in voga della Nba è Jaylen Brown, non solo per le sue qualità difensive o perché i Boston Celtics sono in testa nella Eastern Conference, ma perché il ragazzo parla con cognizione di causa di Martin Luther King e del razzismo contemporaneo, di una società divisa in classi, del falso mito del sogno americano e di come lo sport serva ad alimentarlo. Così non è sembrato strano, ma anzi naturale, che poche settimane fa la campionessa di sci Lindsey Vonn abbia dichiarato in un’intervista alla Cnn che lei ai Giochi di Pyeongchang gareggerà per il popolo americano, e non per il presidente Trump, indegno di rappresentare il paese.
I BOBBISTI Elana Meyers Taylor e Kehri Jones, suoi connazionali, hanno spiegato che partecipare ai Giochi non è solo un atto sportivo, è politica, e che oggi il ruolo dell’atleta è di assumersi responsabilità, lasciando intendere di essere pronti a inscenare proteste contro il loro presidente. Lo stesso ha detto Gus Kenworthy, sciatore freestyle, che tra l’altro è il primo atleta olimpico americano ad avere fatto coming out. Non è che improvvisamente nel cinquantenario del ’68 tutti gli atleti americani siano diventati attivisti, ma qualcosa si muove. Anche loro si sono presi il diritto di parola, e si è scoperto che hanno qualcosa da dire.

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