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MAL D’INDIA, È CAOS SANITÀ

MATTEO MIAVALDIindia/New Delhi

Lo scorso 29 dicembre il ministro della sanità indiana e deputato del Bharatiya Janata Party (Bjp) J.P. Nadda ha presentato alla camera bassa del parlamento il National Medical Commission Bill. Si tratta di una proposta di legge nell’aria già da qualche anno che, negli intenti formali dell’esecutivo, dovrebbe in un sol colpo risolvere due dei problemi macroscopici che attanagliano la sanità indiana: la corruzione dilagante in seno al Medical Council of India (Mci, l’organo che norma e amministra l’educazione e la pratica mediche nel paese) e la mancanza cronica di dottori, specie nelle zone rurali del paese, dove risiede oltre il 70% della popolazione indiana.
Per mettere mano alla malasanità nazionale, il governo presieduto dal primo ministro Narendra Modi vorrebbe riformare l’autorità sanitaria, creando un nuovo organo nazionale controllato dall’esecutivo, e aprire la pratica medica allopatica anche ai cosiddetti dottori dell’Ayush: acronimo del ministero delle medicine tradizionali introdotto nel 2014 con l’obiettivo di diffondere e sostenere scienze più o meno mediche, più o meno ancestrali e più o meno autoctone: ayurveda, yoga, siddha, naturopatia (in realtà statunitense), omeopatia (in realtà tedesca), unani (Asia centrale e di tradizione islamica) e sowa rigpa (tibetana).
LA PROPOSTA DI LEGGE prevede infatti la possibilità di abilitare i «praticanti di medicina tradizionale» alla prescrizione di non meglio specificati «medicinali allopatici», previo superamento di un «corso ponte» di sei mesi. Per K.K. Aggarwal, ex presidente della Indian Medical Association, la nuova misura spalancherebbe le porte all’«entrata illegale alla professione medica» di centinaia di migliaia di «medici» tradizionali, specializzati in pratiche che poco o nulla hanno a che fare con la medicina. Nonostante la «medicina tradizionale indiana» - qualsiasi cosa voglia significare secondo il governo - abbia trovato un entusiasta sostenitore e strenuo difensore nel premier Modi, gran parte dei «medici tradizionali» continua ad essere considerata dalla comunità scientifica una masnada di imbonitori, somministratori di cure al placebo mascherate da terapie alternative.
Per il governo, trattasi invece di saperi millenari non solo da preservare, ma direttamente da brandizzare, elevandoli a pratiche mediche degne quanto la medicina allopatica, occidentale, senza curarsi più di tanto del metodo scientifico.
Un affronto cui i medici indiani, nel caso specifico, hanno risposto con uno sciopero nazionale ritirato il 2 gennaio dopo solo cinque ore, quando il governo ha deciso di rispedire la bozza in commissione sanità.
L’idea di abilitare un esercito di medici tradizionali alla prescrizione di farmaci allopatici, così formulata, sembra una scorciatoia piuttosto arraffazzonata per ovviare a un gigantesco vuoto di copertura medica su cui emergono isole di eccellenza sistematicamente individuate nei maggiori centri urbani e, spesso, appaltate al privato. A peggiorare la situazione, nell’India del boom demografico continua a persistere una carenza di personale medico qualificato, senza contare le centinaia di «strutture ospedaliere» fatiscenti, tenute aperte a suon di mazzette per interessi ben lontani dalla salute del cittadino.
SECONDO I DATI dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), l’India vanta l’agghiacciante record negativo di un solo dottore - allopatico - ogni 1.674 abitanti, contro lo standard di uno ogni mille. L’Mci dice che oggi in India, 1,3 miliardi di abitanti (probabilmente arrotondati in larghissimo difetto), ci sono 932mila dottori, mentre secondo i dati dell’Ayush, i praticanti di medicina tradizionale riconosciuti dal ministero sarebbero 771.468.
Effettuando una veloce ricerca intorno ai criteri di registrazione all’albo dei naturopati indiani, ad esempio, ci si imbatte in linee guida di questo tenore: «Riconoscendo l’esistenza di un numero significativo di naturopati autodidatti, la registrazione di classe B può essere accordata una tantum a naturopati autodidatti a tempo pieno che abbiano compiuto almeno 35 anni, con un minimo di 15 anni di esperienza comprovata in una clinica e che abbiano conseguito il diploma di scuola media superiore».
Ciò detto, il sito internet dell’Ayush indica che per conseguire una laurea in naturopatia e scienze yogiche presso uno degli undici istituti nazionali presenti sul territorio indiano, occorre concludere un percorso di studi della durata di cinque anni e mezzo, tanti quanti una laurea di primo livello in medicina allopatica e chirurgia. Al momento, in tutta la Repubblica indiana, Ayush conta 1.903 «Government Registered Naturopathy & Yoga Doctors».
Deducendo che l’oggetto del contendere sia dare la possibilità agli oltre 700mila praticanti di medicina tradizionale di cui sopra di prescrivere medicinali allopatici, la ratio dovrebbe consistere nel riempire il vuoto di medici nelle aree rurali nel paese, dove nessun laureato in medicina allopatica - in India o all’estero - ha intenzione di trasferirsi rinunciando allo standard di vita dell’India urbana e accontentandosi di stipendi infinitesimali rispetto a quelli offerti da strutture private nelle città.
E ai pochi dottori non specializzati che rimangono nel villaggio, come alle infermiere, è vietato per legge sostituire i medici specializzati in mansioni, sulla carta, ampiamente alla loro portata. Come evidenzia un editoriale del quotidiano The Hindu pubblicato mercoledì 3 gennaio: «Le regole dell’Mci impediscono anche a medici non specializzati ma esperti di fare parti cesarei o risonanze magnetiche, mentre le infermiere non possono amministrare anestesie». Secondo il quotidiano, organizzare corsi ad hoc di tre anni per medici generali nelle aree rurali del paese riconosciuti dall’Mci, ad esempio, permetterebbe un ampliamento sensibile della copertura medica di base in tutto il paese, portando benefici di gran lunga superiori alla prescrizione di medicinali affidata ai «dottori di medicina tradizionale».
Senza contare che in India il concetto di «medicinale vendibile esclusivamente dietro prescrizione medica» è ampiamente lasciato alla sensibilità personale del farmacista.
LE FARMACIE INDIANE sono celebri per la vendita di farmaci «al dettaglio», in blister separati da confezione e bugiardino o direttamente in frazioni di blister appositamente ritagliate dal commesso; lo stesso commesso che, in base al malanno descritto dal paziente/cliente, indica anche la posologia. Chi scrive, in oltre sette anni di residenza in India, non ha mai dovuto presentare alcuna ricetta medica per acquistare in farmacia antibiotici o pasticche di cortisone.
In un commento pubblicato da Indian Express sul tema qualche anno fa, si legge: «Nei decenni, una serie di studi ha concluso che in India persiste un inaccettabile tasso elevato di auto-medicazione da parte dei pazienti. […]Farmacie che operano in un contesto normativo particolarmente rilassato hanno incoraggiato questa tendenza. Secondo un’analisi della Global Antibiotic Resistance Partnership in collaborazione con la Public Health Foundation of India del 2011 «a Delhi, nessuna prescrizione medica è stata richiesta dal farmacista per almeno un quinto degli antibiotici venduti recentemente».
In questo contesto, aggiungere alla malconcia sanità indiana la variabile di medici tradizionali improvvisati esperti di medicina allopatica non sembra essere l’intervento drastico e risolutivo di cui il paese ha bisogno.

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