CULTURA

INCONFESSABILI INTRECCI NEL CUORE ROMANO DELLA NUOVA BANGLATOWN -

«La terra scivola», il romanzo che segna l’esordio narrativo del regista Andrea Segre, per Marsilio
GUIDO CALDIRONITALIA/ROMA

Una voragine profonda, un «buco» che si apre d’improvviso in mezzo alla strada come accade sovente nell’urbanistica incerta della Capitale e che porta con sé insicurezze e timori, paure e interrogativi cui non è facile dare risposta. Solo che questa volta lo scenario è il quartiere di Torpignattara, quasi un esperimento quotidiano di futuro dispensato a rate tra palazzi e casette inurbate a forza, vicolo dopo vicolo, scala dopo scala, lungo una biografia collettiva dove confluiscono le storie più disparate e un’ansia di vita che non appare mai doma.
COSÌ, QUELLA che a prima vista potrebbe apparire come una ferita, una lacerazione del tessuto urbano si trasforma per molti versi in una possibilità, quasi un invito ad esplorare oltre i propri confini la parte di noi che c’è negli «altri», certi che calandosi in quel buco e continuando a scavare «magari arrivi dall’altra parte del mondo e lì c’è di nuovo casa».
La terra scivola (Marsilio, pp. 254, euro 17,50), brillante esordio narrativo del regista Andrea Segre è un romanzo che si può leggere seguendo diverse polarità che hanno a che fare con i luoghi come con gli individui, che poi, in una storia in cui il protagonista principale è per certi versi un quartiere e ciò che racchiude in termini di vite vissute e sognate, finiscono in qualche modo per confondersi gli uni con gli altri, fino a mostrare a più riprese inestricabili quanto inconfessabili intrecci.
DEL RESTO, nel «quartiere più multietnico d’Italia», dove si sperimenta ogni giorno «la via romana all’integrazione», tutto sta nell’imparare ad attraversare ogni giorno senza porsi troppi problemi «confini di riconoscimento, di appartenenza, confini aperti», per «far funzionare ciò che non funziona». In un reticolo di strade e palazzi che celano una piccola «Banglatown», ma anche cinesi, rumeni, lucani e abruzzesi, ciascuno a suo modo custode di una parte della storia locale. Una piccola folla che si trasferisce nel libro reclamando la propria parte, un vissuto talvolta infelice e compromesso, ma senza del quale è impossibile ritrovare la strada di casa.
LE PAGINE DEL ROMANZO si possono perciò percorrere dalle grotte sottostanti la città, verso le viuzze della Marranella, per poi sbucare nel cuore della speculazione edilizia, dove case forgiate in «un bello triste, un ordinato brutto che è già pronto a rovinarsi, a consumarsi» racchiudono tutta la fragilità della metropoli. Allo stesso modo, ci si può incamminare lungo i viali della memoria che raccontano di come, in tutto il quadrante sud della Capitale, la campagna si sia trasformata un bel giorno in città, con gli edifici anonimi che hanno preso il posto delle pecore al pascolo, senza però mai scalfire fino in fondo i ricordi di chi è cresciuto lungo quel confine incerto di cui Roma mostra ancora i segni tangibili.
Ma la direzione che più sembra stare a cuore a Segre, e quella lungo la quale conduce la sua personale esplorazione emotiva, confermando la capacità di emozionare raccontando frammenti di esistenze già testata con Io sono Li e L’ordine delle cose, è assolutamente circolare. Nel costruire storie e dischiudere alla nostra vista, rigorosamente in punta di piedi, mondi e vite, l’autore non sembra abbandonare mai l’idea che in fondo ci si possa incontrare perché quale che sia la direzione del cammino intrapreso c’è un punto dove i nostri passi si sovrappongono a quelli di qualcun altro. Come accade a due delle protagoniste: Francesca, professionista veneta, in fuga dalla sua esistenza borghese che sbarca all’inizio un po’ stralunata a Torpignattara per prendersi cura di zia Ada, quasi un dolce fantasma della sua infanzia, ormai in fin di vita, e Yasmine, giovane bengalese cui va sempre più stretta la dimensione del matrimonio con un uomo che non vede l’ora di tornare a Dacca, quasi la vita a Roma non possa rappresentare un nuovo possibile inizio, e che è decisa a ritrovare la madre da cui è stata separata fin dall’infanzia.
Due donne che si incontrano e si scoprono reciprocamente, unite dalla «necessità di capire cosa c’è di vero nelle loro memorie negate», perché «quando abbiamo l’impressione o anche la certezza di essere i soli a ricordare qualcosa, la voglia di capire se quella cosa è vera può essere forte».
YASMINE E FRANCESCA che accennano dei passi di danza sulla terrazza condominiale, quasi evocando una scena di Una giornata particolare, mentre sbirciano di lassù gli uomini che passano per strada. Perché, come annota Segre, veneto divenuto da tempo cittadino di questa parte di Roma, «sono queste le cose di cui Francesca non sapeva di aver bisogno, eventi cui non poteva conoscere e controllare gli orizzonti. Non avventure o viaggi per cui paghi, ma storie e volti che non ti aspettavi di poter conoscere. Quello di cui la normalità ha paura». In una parola, Torpignattara.

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