CULTURA

A Città del Messico gli abitanti assaggiano il sapore delle case

LAIA JUFRESA - La scrittrice di Veracruz è in tour in Italia con «Umami», edito da Sur. Domenica sarà ospite a Più libri più liberi
ARIANNA DI GENOVAmessico/italia/roma

Il colore delle pareti della casa nuova di Marina non è bianco, ma biansibile, una parola inventata che sta lì a dire che in quel suo candore è contemplato il «possibile»: rifarsi una vita decente, senza medicine né ricoveri per disturbi alimentari e allucinazioni. Griste invece è la sfumatura emotiva e malinconica del grigio, mentre nettrico è la particolare notte messicana che ha un tono artificiale dato dalla luce che tutto impasta. Una gradazione disturbante quest’ultima che Laia Jufresa, l’autrice di Umami (Sur, pp. 250, euro 16,50, traduzione di Giulia Zavagna), conosce molto bene.
Radici in Messico, un’infanzia di scorribande nella foresta che circonda Veracruz, poi adolescente il trasferimento a Parigi e studi alla Sorbonne, fa parte di quella generazione di scrittori e scrittrici nati negli anni ’80, un’onda fragorosa che ha investito la letteratura latinoamericana.
Nel suo romanzo d’esordio (dopo i racconti di El esquinista), Jufresa conduce i lettori dentro le mura delle abitazioni di un comprensorio a Città del Messico, costruito da un antropologo ormai vedovo, che vive nel ricordo della moglie e riesce a farla resuscitare, raccontandola a modo suo. Sarà anche lei, infatti, la dottoressa Noelia, una delle protagoniste di questo affresco corale di voci, dove a intrecciare le storie sembra essere la maledizione delle relazioni interrotte: una madre in fuga, il lutto per una bambina annegata, una pittura che non vede mai la luce. Solo la milpa, l’orto tradizionale messicano che prevede la coltivazione insieme di mais, zucca e fagioli, germoglia felicemente, simboleggiando con le sue piante ogni sapore che identifica le case del comprensorio - Acido, Amaro, Dolce, Salato e, naturalmente, l’insondabile gusto che tutto amalgama, l’umami.
Laia Jufresa è in Italia per presentare il suo romanzo: sarà ospite domenica 10 alla fiera Più libri più liberi (Sala Sirio, ore 17, con Nadia Terranova (mentre oggi parlerà alla libreria Ubik di Monterotondo e domani alla Novarcadia di Casalpalocco). «Volevo scrivere un altro libro di racconti, però mi è sfuggito di mano - dice - Tutti i personaggi si conoscevano e, da buoni vicini, hanno iniziato a mettere il naso nell’esistenza degli altri... Credo che avessi paura di ammettere che stessi scrivendo un romanzo. Così, procedendo lentamente e concentrandomi solo sul dissotterrare ogni voce, non ho lasciato che il timore mi paralizzasse».
Il Messico è un paese descritto spesso in una cornice di violenza (specialmente sulle donne), adagiato nella corruzione delle sue istituzioni politiche. Ma la sua letteratura promette un futuro diverso, grazie anche a giovani autrici e autori. Pensa che la cultura sia un buon antidoto?
Sì e no. Sì perché credo che la cultura sia fondamentale per generare spazi di libertà di pensiero e per offrire ai giovani strumenti per inventarsi l’esistenza che vogliono vivere. Sì, perché il Messico sta attraversando un momento terribile, malgrado la vita continui e la letteratura sia in parte un riflesso di quella vita, con le sue complessità e inerzie. Ma devo anche dire di no. Non nutro un grande ottimismo riguardo alla portata della cultura nel mio paese, nonostante esistano alcune istituzioni culturali che - a differenza di quasi tutte le altre - funzionano abbastanza bene. La verità è che ciò di cui abbiamo bisogno sono enormi cambiamenti politici strutturali. La legalizzazione della droga, per cominciare, porre fine alla militarizzazione della sicurezza pubblica e alla stupida guerra alla droga che uccide dodici volte più persone delle sostanze stupefacenti stesse. C’è poi la piaga del femminicidio e circa trentamila desaparecidos. Trentamila morti perduti! Nessun nome, né documento, nessuna fine per i loro parenti. Messicani e centroamericani. È uno stato di terrore di cui si parla troppo poco all’estero e per il quale la letteratura non può fare molto.
Il suo libro ha una tessitura corale, dove un universo chiuso - il comprensorio - permette di raccontare la vita dei suoi abitanti da vari punti di vista. Ognuno possiede la sua verità, è come se il narratore qui assumesse una posizione democratica. Cosa può dirci a riguardo?
Non ci ho mai pensato in questi termini, ma suppongo che il mio interesse nel prestare ascolto a una certa polifonia sia qualcosa di democratico. Ma non perché io sia convinta che ogni personaggio abbia il diritto di parlare sempre. Il vero motore è nella mia curiosità: volevo sapere di più su ciascuno dei narratori durante il farsi stesso della mia scrittura. Questo ha a che vedere con ciò che mi piace raccontare: personaggi rotondi, che il lettore non riesce a giudicare o etichettare facilmente, ma nei quali può rispecchiarsi (questo anche malgrado sé).
Nella sua storia, i «sapori» (che danno il nome alle varie case del comprensorio) sono molto importanti. Riguardano alcuni gusti che già conosciamo con l’aggiunta di uno nuovo, più difficile da definire, quell’«umami» giapponese che è anche il titolo al romanzo. Da dove arriva questo interesse per le «papille gustative»?
Per me non sono così importanti, tranne l’umami, che ha un proprio ruolo, una funzione quasi strutturale. Alcuni critici hanno affermato che i personaggi medesimi prendono le caratteristiche del sapore che nomina la loro casa. Io, in realtà, non la pensavo in questo modo (ciò non significa che non sia realmente così, tutte le letture sono valide). L’umami, nella mia scrittura, ha a che fare con uno stato mentale generale che desideravo raggiungesse il libro: qualcosa a fior di pelle, che poteva passare con la stessa facilità dalle lacrime alle risate, proprio come l’umami che passa dal dolce al salato, a seconda di cosa stai mangiando.
L’osservatrice per eccellenza è Marina, l’artista che inventa nuove parole per descrivere colori che solo lei vede e offre agli altri. C’è qualcosa di autobiografico in quella figura?
Non sappiamo che cosa dipinga Marina perché in realtà non lo fa mai. Sì, c’è qualcosa di autobiografico nel suo personaggio, credo però che non appartenga solo a me, ma a tutti gli artisti che conosco e questo indipendentemente dal tipo di attività creativa a cui ci si riferisce. Esiste una sorta di «giovinezza» creativa, in cui ciò che si può fare è ancora molto lontano da quello che vorresti. Una sensazione che produce frustrazione e costringe a posticipare il lavoro. Alcuni impiegano più tempo e altri meno per capire e accettare che l’unico modo per saltare dal talento al lavoro è sedersi e portarlo a termine. Marina non ha raggiunto ancora quel grado di disciplina. Nel romanzo indoviniamo quel limbo, quello stato di nevrosi, ma bisogna avere fede: la creatività e la sua fondamentale qualità di osservatrice, come dicevamo prima, getterà un peculiare sguardo sul mondo.
Ana è una ragazzina che cerca di ricreare la milpa, il tipico orto delle coltivazioni messicane. Per lei, che ha studiato e vissuto all’estero, rappresenta un modo per ritrovare le radici?
Tutto Umami, anzi l’intera mia pratica narrativa, parte da qui. Non soltanto a un livello di trama, ma prima ancora a livello linguistico. Ho vissuto molti anni senza ascoltare intorno a me lo spagnolo-messicano, che è lingua in cui mi esprimo, la mia materia prima. Così nella mia scrittura c’è una volontà e una pratica quotidiana di tornare a quell’idioma, o forse reinventarlo perché ogni giorno il mio ricordo peggiora. Non appartengo a nessun luogo, ma alla lingua con la quale sono cresciuta sì.
Nel romanzo è affrontato un argomento molto doloroso come il lutto. In realtà coloro che non ci sono più sono continuamente raccontati dagli altri, come in un puzzle. Crede nel potere taumaturgico della letteratura?
Ho dovuto cercare «taumaturgico» nel dizionario! Ho scoperto che «taumaturgia» è la «facoltà di fare meraviglie». Se si intende il fatto che la letteratura sia magica o possa cambiare il mondo, la risposta è negativa. Penso che la letteratura, purtroppo, sia un lusso, un hobby per persone che hanno avuto la fortuna di ricevere una buona istruzione. Ma se si intende dire che la letteratura ci consente di conversare con i morti, allora la risposta è assolutamente positiva. Ci permette di entrare in dialogo con chi se n’è andato e, forse ancora più importante, con quei vivi che sono molto diversi o assai lontani da noi. Grazie a una manciata di pagine sentiamo, capiamo, viviamo per un po’ con loro, mettendoci nei loro panni. Questo è il prodigio della letteratura. Non è cosa da poco: ci rende meno soli e apre la via all’empatia.
Cosa pensa dell’affermazione dell’argentino Juan José Saer, «la letteratura latinoamericana per me è solo una categoria storica, o piuttosto geografica. Non esistono romanzieri di una certa nazionalità, per me, esistono solo scrittori»?
Sono d’accordo, però è una dichiarazione che rischia di dimenticare il lavoro dei traduttori, che troppo spesso diventa invisibile. Se sono in sintonia con autori lontani, è anche per merito del traduttore che mi ha offerto un ponte. Non ci sono romanzieri di una determinata nazionalità ma, volenti o nolenti, che usano una lingua al posto di un’altra. E questa non è una fatica. La scrittura (almeno per me) è soprattutto quella necessità di mettere la lingua e il linguaggio al lavoro. O, meglio, a giocare.
Qual è la scrittura che ha più amato?
Quella di Jorge Ibargüengoitia, Fabio Morábito, Daniel Pennac.

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