COMMENTO

Da Renzi a Gentiloni, la monocultura della cementificazione

Ambiente, urbanistica
PAOLO BERDINIITALIA

La giornata mondiale contro il consumo di suolo promossa dalla Fao rende evidenti tre aspetti della realtà italiana. In primo luogo l’Ispra, l’agenzia pubblica per la protezione ambientale nel suo ruolo di analisi e denuncia di una situazione fuori controllo. Vedremo nel dettaglio. Fermiamoci per ora a sul ruolo istituzionale svolto dall’istituto che ne fa un’eccezione nel panorama nazionale perché investe risorse umane ed economiche (poche) per analizzare e diffondere conoscenza. Instaura collaborazioni con le università, come quella de L’Aquila, che si occupano sistematicamente della questione. In tempi in cui il ruolo di programmazione pubblica è ridotto al lumicino, l’Ispra dimostra che nello Stato ci sono energie capaci di contribuire a rimettere in moto un paese in declino.

Il secondo aspetto è la vitalità del mondo associativo nella battaglia per ottenere dal Parlamento una normativa efficace per chiudere la fase dell’espansione urbana e la devastazione dell’ambiente. Salviamo il Paesaggio, WWF e la Coldiretti, ciascuno dal proprio punto di osservazione, continuano a battersi contro il cemento selvaggio.
Il terzo aspetto, stavolta desolante, è l’assenza del governo. Paolo Gentiloni e i molti ministri che dovrebbero rivendicare un ruolo per tentare di sanare la patologia italiana restano muti, come se la cosa non li riguardasse. E’ uno scandalo perché i dati forniti dall’Ispra confermano che la situazione è fuori controllo.
Al 2016 è stato cementificato quasi l’8 per cento del territorio nazionale. In Francia e in Germania circa la metà. Del resto basta percorrere quei paesi per rendersi conto del baratro che ci divide. Le città finiscono e inizia una campagna ordinata che produce reddito e promuove imprese. Da noi le città non finiscono mai. Uno stillicidio di case, di capannoni vuoti, di aree produttive senza futuro e di centri commerciali funestano il paesaggio che una volta l’Europa ci invidiava. Nelle 14 aree metropolitane, la cementificazione supera addirittura il 10%. A Roma, dove la famelica lobby del cemento la fa da padrona da decenni il dato arriva al 30%. Il fenomeno non ha alcuna relazione con l’aumento del numero delle famiglie (che non c’è o è molto modesto). A leggerli bene, anzi, i dati rendono il quadro ancora più fosco. L’intero sistema appenninico e le aree deboli sono da tre decenni oggetto di un forte spopolamento. Ormai il numero dei residenti è sceso sotto il minimo indispensabile per continuare a garantire la sopravvivenza dei borghi e la stabilità dei versanti collinari e montani. Eppure anche in quelle aree il consumo di suolo non si ferma. La speculazione edilizia fa scomparire le aree idrogeologicamente più delicate.
Nelle grandi aree urbane, poi, la questione da affrontare urgentemente è un’altra. Il mutamento climatico è una realtà evidente e per rendere le città vivibili bisogna bloccare l’espansione e trasformare le aree ancora libere in grandi polmoni verdi o agricoli.
Alla luce dei dati dell’Ispra la legge ferma in Parlamento non serve: prevede di chiudere la cementificazione nel 2050 ma se continuiamo con i 30 ettari al giorno misurati da Ispra andiamo verso una prospettiva insostenibile che pagheremo a caro prezzo.
Nei momenti difficili occorre coraggio. Lo ha avuto due anni fa la Toscana approvando la legge dell’assessore Anna Marson. E’ molto semplice: ogni nuova urbanizzazione può avvenire solo dopo aver verificato che non esiste patrimonio già costruito e abbandonato. E’ il cambio di paradigma che serve, l’unico che può salvare il paese. Anche perché, se togliamo la pressione speculativa dai territori agricoli, favoriremo le imprese giovanili agricole che nascono ormai in ogni parte d’Italia e trovano difficoltà proprio a causa dei folli costi delle aree in perenne attesa del cemento. E’ la prospettiva produttiva più volte evocata su queste pagine da Piero Bevilacqua. L’unica che può salvarci dalla monocultura del cemento.

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