Ho davanti agli occhi sei tele eseguite da Francesco Trombadori nel 1959, due anni prima della morte che lo coglierà a Roma il 24 agosto 1961. Sei vedute di Roma, pressoché dello stesso formato: due di Piazza del Popolo; Trinità dei Monti; Piazza San Giovanni; Piazza San Pietro e Campo dei Fiori. Sono esposte nella mostra «Francesco Trombadori. L’essenziale verità delle cose» curata presso la Galleria d’Arte Moderna del Comune di Roma da Giovanna Caterina de Feo con la collaborazione di Arianna Angelelli. Le sei tele ostentano una pittura sobria nella tenuità dei colori, semplice nella composizione dei volumi, elementare nell’impianto delle linee. Comprendi che l’immagine di Piazza del Popolo, di Campo dei Fiori o di Trinità dei Monti, è un’occasione per dipingere. È un ordito di rapporti noti, di distanze dalle misure ben conosciute, di spazi riportati sulla tela con la sicurezza di chi, ancora una volta, li registra secondo proporzioni acquisite e più volte sperimentate. Un ordito sul quale avviare la regolare successione di gesti che, nel rispetto di regole costantemente applicate, vien man mano realizzando una «veduta». Quel che tiene Trombadori è la determinazione a dipingere e il piacere che prova conducendo a compimento quella che all’osservatore risulterà – inevitabilmente – la raffigurazione di Piazza San Giovanni o di Piazza San Pietro, ma che il pittore, mentre la realizza, intende come il corretto compiersi di relazioni formali grazie al possesso pieno di pochi gesti, tanto controllati quanto «produttivi», fattivi. Il tocco di pennello che dà il breve innesto di un campo cromatico tra due più ampie aree campite da tinte diverse. Un pigmento grigio steso a coprire d’una velatura leggera la superficie superiore della tela per divenire rarefatto cielo. E velature, ancora, dai toni perlacei e biscottati che ottengono irreali atmosfere. Così, quelle che, a tutta prima, riconosci per le architetture note del Valadier, ad una più ponderata osservazione si mutano in equilibrati pesi e bilanciati contrappesi cromatici. Nel 1959 Trombadori conta settantatre anni. Queste sei tele testimoniano d’una sua contenuta felicità di pittore, d’un suo conciliato benessere allorché affida se stesso alla sua virtù più completa esercitata lungo i decenni: dipingere. Il gesto pittorico di Trombadori non si emancipa in una sua assolutezza. È applicato ad un intervento non gratuito. Non vale irrelato, di per sé. Non è indifferente ciò che il gesto rilascia, vuoi una sgocciolatura, vuoi una macchia o un frego a richiamar poetiche attuali negli anni Cinquanta. Per Trombadori, la probità d’ogni suo gesto di pittore chiede uno spartito da eseguire. Lo spartito di queste sei tele del 1959 risulterebbe allora una veduta banale, scontata della città di Roma, scelta tra quante si offrono a chi è in visita per qualche giorno e decida di inviare una cartolina ai parenti in provincia? Certo. Ma lo scontato, il banale sono, pare a me, una sorta di pretesto generico che autorizza Trombadori a istituire, fedele ai suoi principi, l’operazione del dipingere. Ne innesca dunque il procedimento avvalendosi di un presupposto anonimo adatto a ricevere una impreveduta e nuova identità formale dall’operare suo di pittore. Perché quelle vedute del 1959 dipendono da una dimensione poetica che di Roma Trombadori elabora tra gli anni Venti e Trenta e alla quale intimamente si attengono. Trasfigurano il modulo trito e convenzionale e lo conformano a una interpretazione della città ove «tutto si pietrificasse in una sospensione silenziosa, ha scritto Giuliano Briganti, tanto che la vita sembrava interrotta e le ombre si disegnavano così nette e oscure sulle strade deserte da dare agli occhi abbagliati un senso di immobilità e di morte». E Briganti dice di un «rifiuto», di una «non partecipazione», di una «attesa» che inquietavano i pittori della Roma di quegli anni. «È a quell’iniziale e ormai sepolto rifiuto, aggiunge, che dobbiamo le vedute di una Roma attonita e deserta, di una Roma di cenere spenta sotto la fiamma bianca del sole, di una Roma incantata, così vuota e chiara da sembrare lunare».