VISIONI

Il risveglio dell’erose dei sentimenti: storiaincantata di solitudini

AL CINEMA - Il film si potrebbe definire un dramma romantico, ma sfugge alle classificazioni e agli schemi
SILVANA SILVESTRIITALIA

Tra una manovra di atterraggio e un viaggio verso l’aeroporto Dove non ho mai abitato il nuovo film di Paolo Franchi occupa lo spazio di un intervallo di tempo in cui racchiudere un’attrazione erotica controllata. Non solo i due principali protagonisti, Francesca e Massimo (Emmanuele Devos e Fabrizio Gifuni) ne subiscono l’effetto, ma anche gli altri personaggi con gradazioni diverse, sentimenti piuttosto conflittuali, come se mancasse a tutti qualche elemento di un’educazione sentimentale.
DUE SOLITUDINI si incontrano, due «cuori in inverno» cominciano ad aprirsi in un intreccio che scorre sotterraneamente, dove si intuisce la forza dei legami e dei contrasti, anche di chi è fuori campo. Conta molto di più la messa in scena che non le parole, in quegli ambienti come luoghi emotivi, lontani dal frastuono della contemporaneità. Paolo Franchi apre ancora una volta un orizzonte inedito nel racconto cinematografico con dispositivi che può utilizzare per la scelta di attori carismatici (l’uso del primissimo piano, le ellissi, i sottintesi, il gioco dei silenzi, la lontananza linguistica) e costruisce così l’inestricabile rete di una passione romantica.
IL FATTO che il film sia ambientato a Torino, ci dice il regista, è casuale, i tratti caratteriali che i personaggi possiedono sono universali, ma fanno parte di un certo stile di borghesia nordica durezze e chiusure di carattere come quella del padre (Giulio Brogi) celebre architetto che ancora rimprovera dopo tanti anni alla figlia di non aver proseguito la sua stessa professione per sposare un prosaico anche se protettivo finanziere francese (Hippolyte Girardot). E là dove primeggia l’etica del lavoro, non stupisce la chiusura ai sentimenti di Massimo, il delfino dello studio, a cui sta bene un rapporto senza impegni con una donna (Isabella Briganti) altrettanto impegnata nella professione.
GLI SPAZI entro cui si muovono i personaggi sono quasi sempre vuoti come negli agghiaccianti interni delle riviste di arredamento e aspettano che il calore umano li riscaldi. Il regista accende questo fuoco, ma non ne fa un incendio, procede con riserbo e cautela, con la malinconia strategica e poetica dell’amore impossibile. Totem simbolico è la capsula spaziale, habitat progettato dagli architetti dello studio (quel modello in scala si trova proprio a Torino, nella sede dell’Artec, centro di eccellenza italiano per la fornitura di servizi ingegneristici a supporto della stazione spaziale internazionale) casa perfettamente progettata ma irraggiungibile. Così come la casa di Francesca e Massimo è solo lo spazio circoscritto della durata del film.
ALTRO ELEMENTO simbolico è la villa progettata in riva al lago per la giovane coppia di sposi di cui epidermicamente si avvertono attriti di là da venire. E dove Francesca infine lasciatasi andare alla sua vera passione segreta e cancellata dalla sua vita, ha ideato la «stanza tutta per sé», cupola di vetro sul tetto protesa verso il cielo. Ma che sarà abitata da un altro. Il suo talento per l’architettura è reale, lo ha già dimostrato in passato, ma ha deciso di chiudere per sempre, così come sembra abbia fatto con i sentimenti. Un film che sfugge alle classificazioni, un tono di racconto e di tensione moraleche concilia con il nostro cinema.

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