CULTURA

Addio al poeta friulano Pierluigi Cappello, esordì con «Le nebbie»

RITRATTI
GUIDO MONTIitalia/Cassacco (Udine)

Il poeta Pierluigi Cappello nato a Gemona in Friuli, nel ’67 ci ha appena lasciati domenica scorsa a cinquant’anni, spentosi a Cassacco, Udine, eppure quel suo sguardo largo, quell’occhio felicemente malinconico, che ritrovammo al premio Viareggio-Rèpaci nel 2010, è come se stesse ancora lì davanti a un orizzonte ideale non dietro, ancora amabilmente ci stesse invitando a ricercare quella profondità che ci pertiene ma che sembra continuamente sfuggirci: la vita nella sua autenticità. E questa declinazione alla ricerca appunto, già la si coglieva nel suo libro d’esordio Le nebbie, uscito per Campanotto nel ’94.
LA POESIA di Cappello incita a non smettere di interrogarci su quel senso riposto anche perché a volte fa capolino, tra le persone e le cose più semplici: «Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo/l’altro mette il portafoglio nero/nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.//Uno è stato trovato/una notte freddissima d’inverno/le scarpe nella neve/i disegni della neve sul petto/…».
Cappello, dall’età di 16 anni era su una sedia a rotelle per un incidente di moto e certo giustamente il poeta sempre affermava: «sarei divenuto poeta anche senza quell’incidente» ma quanto di quel tragico vissuto, nell’ombra delle parole, nei suoi incunaboli anche inconsciamente sia contato, questo non possiamo saperlo ma egualmente non possiamo non tenerne conto. La vita nei suoi aspetti più dolorosi lo segnò precedentemente: si ritrovò sfollato anche dalla propria casa a Chiusaforte dopo il terremoto in Friuli del ’76, quando toccò con mano anche la morte di tanti suoi compagni.
Dice del poeta la regista Francesca Archibugi che ha girato nel 2013 un bellissimo film sull’autore, prefando anche il libro uscito per la Bur, Azzurro elementare. Poesie 1992-2010: «ti risveglia e diventa un amico interiore».
LA LINGUA POETICA di Cappello è una lingua stilisticamente piana, apparentemente semplice ma in quella linearità di dettato, c’è la profondità del suo spessore; sabianamente Cappello era un artigiano della parola, riportava i fatti degli uomini e quelli naturali, facendoli vibrare quasi musicalmente attraverso lo spartito adamantino dei suoi testi. Quasi che quel luogo di vita nel profondo Friuli, così lontano dalla società e dalla parola massificata, quel luogo pieno di silenzio e di tempo, e il tempo nelle voce di Cappello pare materializzarsi, avesse potenziato e dato un ritmo, una scansione linguistica precipua ai suoi scritti. Tanto che ogni libro è una proiezione, una longa manus dei suoi sensi tutti acuiti e proiettati nell’ascolto del succedersi degli avvenimenti naturali, sociali ma anche di quelli dolorosi che accadevano all’interno del suo corpo; ecco allora che Cappello con la sua parola polifonica, plurima, dicendo del dentro dà al suo dolore un cadenza universale che tutti accomuna e scrivendo del fuori dà alle storie degli uomini che si succedono, l’acume della memorabilità: «…mio padre torna per sempre nella sua cerata verde/bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere/come fosse eternamente chiuso/. Se siamo ancora cosa siamo stati,/io sono lo stare di quell’uomo bagnato nella pioggia,/…».
E NEL SUO ULTIMO LIBRO di poesie sempre uscito per la Bur dal titolo Stato di quiete. Poesie 2010-2016 dice: «È questo che mi interessa dello stato di quiete: mi vengono in mente le bottiglie di Morandi, stanno lì composte, allineate o sparse nella loro rarefazione, ma quanto fermento c’è dentro quella immobilità?...».
DIFATTI L’IMMOBILITÀ del corpo, per Cappello, non è mai stata davvero tale, l’aleggiare e sbatter d’ali della sua parola, lo hanno portato lontano se è riuscito tra l’altro a toccare anche la sensibilità di donne e uomini non strettamente contigui col fatto poetico.
Pierluigi Cappello ci lascia con la sua poesia di luce e stupore ma lascia anche quel suo corpo martoriato con cui ha dovuto sempre fare i conti divenuto però negli anni, uno spazio di libertà, di raccordo delle energie vitali, ma anche crocevia della sua più fine ironia: «Non ci siamo sposati io e il mio dolore siamo una coppia di fatto» con la quale da lui con un sorriso riconoscente vogliamo congedarci.

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