CULTURA

Vite gravate da colpe inconfessabil

ELIZABETH STROUT - Intervista con la scrittrice ospite in Italia nell’ambito di Pordenonelegge
SILVIA ALBERTAZZIitalia/pordenone/usa

È arrivata tardi al successo, Elizabeth Strout, dopo un lungo apprendistato portato avanti con non comune tenacia, conciliando la scrittura (e le relative delusioni) con la famiglia e i più svariati mestieri. Forse per questo, malgrado la fama universale raggiunta con Olive Kitteridge e confermata dal romanzi successivi (Resta con me, I ragazzi Burgess, Mi chiamo Lucy Barton), parlando del suo lavoro mostra ancora un entusiasmo contagioso.
È evidente che le piace scrivere e, soprattutto, prova un’inesauribile curiosità per i suoi personaggi, al punto da non riuscire a separarsene. È quanto accade in Tutto è possibile, appena uscito da Einaudi (traduzione di Susanna Basso, pp. 216, euro 18), dove caratteri minori di Mi chiamo Lucy Barton sono protagonisti di storie che hanno per comune denominatore l’ambientazione nella provincia dell’Illinois e la presenza, soprattutto nei ricordi altrui, della stessa Lucy, bambina misera e abusata divenuta scrittrice famosa.
È proprio la pubblicazione del memoir a spingere i suoi ex-compaesani, in Tutto è possibile, a confrontarsi con il passato e fare i conti con il presente, ma anche, in qualche caso, ad aiutarli a convivere con la propria solitudine. Ne abbiamo parlato con l’autrice, ospite in questi giorni a Pordenonelegge.
In «Tutto è possibile», lei ha ripreso la struttura della sua opera più famosa, «Olive Kitteridge», e la protagonista del suo ultimo romanzo, «Mi chiamo Lucy Barton». Perché ha sentito il bisogno di scrivere ancora di Lucy e di farlo in un romanzo di racconti, com’era, appunto, «Olive Kitteridge»?
Mentre lavoravo a Lucy Barton, mi appassionavano particolarmente le scene in cui Lucy e sua madre parlavano dei loro conoscenti; quelle persone mi affascinavano; volevo saperne di più. E così ho scritto a parte delle scene che li riguardavano.
Quindi sapeva già che la storia di Lucy avrebbe avuto un seguito?
Sì, lo pensavo. E quando ho finito di scrivere Mi chiamo Lucy Barton, mi sono accorta che avevo un nuovo libro quasi pronto e che, in certo modo, era già pronta anche l’architettura del libro. Era come se potessi vedere una costellazione di personaggi e mi rendessi conto di come si sovrapponevano l’un l’altro.
È perciò che la struttura per questo tipo di lavoro non poteva che essere il romanzo di racconti?
Sì, certo. Vede, a me non interessa come gli altri lo definiscono. Per me è narrativa. Io non penso in termini di racconto o romanzo, ma se proprio devo scegliere, lo chiamerei romanzo.
La cosa che più mi ha colpito in questo libro è come lei affronta il tema della differenza di classe. Da tempo non incontravo nella letteratura contemporanea una rappresentazione così esplicita del divario tra le classi sociali e del manifestarsi di una coscienza di classe (o della sua repressione). Lei crede davvero che ognuno di noi porti sulle spalle il peso delle proprie origini per tutta la vita?
Mi fa molto piacere che lei abbia notato questo punto. Non provengo da una situazione di estrema povertà come quella di Lucy, il suo passato non è il mio, ma vengo anche io da un’umile provincia che ho lasciato per trasferirmi in città.
So che cosa vuol dire traslocare da una piccola città a una metropoli: è qualcosa che la maggior parte delle persone con cui sono cresciuta non ha mai provato. Ho cambiato tanti lavori nella mia vita, perché volevo fare la scrittrice mantenendomi da sola: ho fatto la segretaria nello stesso college in cui avevo studiato, e ho visto come i professori fossero ben poco gentili con me quando sono diventata, in qualche modo, una dipendente: questa per me è una manifestazione di classismo. Ho lavorato in un sacco di ristoranti, insieme a donne che avevano fatto quel lavoro per tutta la vita; ho suonato il piano nei cocktail bar; ho persino venduto materassi. Queste esperienze mi hanno permesso di acquisire tante prospettive sul mondo del lavoro, e confluiscono nella mia scrittura.
Nel suo ultimo libro c’è anche un sentimento che unisce in maniera trasversale, come un filo rosso, tutti i personaggi, indipendentemente dalla loro classe sociale: la vergogna.
Sì, è vero. Mentre scrivevo, non me ne rendevo conto: sentivo una scena, la scrivevo, controllavo che avesse un cuore pulsante e passavo oltre. È solo quando ho messo insieme il libro che mi sono resa conto di questa vergogna generalizzata, e ho realizzato che aveva un senso, in relazione alle umili origini di molte di queste persone.
E tuttavia, anche personaggi che provengono da classi sociali più elevate sono oppressi da un senso di vergogna nel suo libro: per qualcosa che è accaduto nelle loro famiglie, o qualche segreto nascosto nelle loro vite. E tutti, a prescindere dalla loro classe sociale, sono vittime di traumi. Per questo mi domando se dobbiamo interpretare ironicamente il titolo del libro, «Tutto è possibile»...
No, non è ironico: nelle mie intenzioni dovrebbe significare che tutto è possibile purché si verifichi un momento di grazia, il che è possibile sempre, anche per chi mai avrebbe pensato di sperimentare qualcosa del genere.
Quindi, le sue non sono storie di perdenti?
Assolutamente no. I miei personaggi sono solo persone che vivono le loro vite, e non le chiamerei neppure vite comuni, perché nessuna vita lo è. A causa del luogo e del tempo in cui si sono trovati nella storia, sono stati sottoposti a determinati avvenimenti; se fossero nate, che so, cinque anni dopo, avrebbero avuto altre vite, sarebbero state persone completamente diverse, ed è proprio questo che non possono sopportare: ciò a cui il tempo e la storia le hanno condannate.
Penso che questo spieghi perché i lettori in tutto il mondo provano un senso di identificazione con i suoi personaggi.
Proprio perché non sono perdenti, sono solo persone, e a me interessano per questo. Nella loro costruzione entrano tante parti della mia vita, le mie esperienze, situazioni di cui neppure mi ero resa conto mentre le vivevo e che tornano alla mia mente all’improvviso. I personaggi mi arrivano da non so dove. E li amo tutti: non potrei scrivere di loro se non li amassi. Per esempio, so che Olive Kitteridge è una donna difficile, ma non avrei mai potuto scrivere di lei se non l’avessi avuta tanto cara.
Quali sono, per lei, i principi basilari per scrivere una buona storia?
Tanto per cominciare, non sono così sicura che la scrittura si possa insegnare. Non insegno più, infatti, ma quando lo facevo dicevo ai miei studenti: leggete, leggete, leggete, se volete costruire delle buone frasi. E poi scrivete, scrivete, scrivete. Solo abituandovi a leggere – e scrivere – potrete arrivare, magari un po’ avventurosamente, a scoprire la vostra voce.
Sbaglio, o ci sono echi di Lawrence nelle sue storie?
È vero, io adoro Lawrence. Ricordo ancora la prima volta che ho letto Figli e amanti: sono rimasta a bocca aperta, e mi sono detta: «Ma davvero si può scrivere così?»
A cosa sta lavorando adesso, è già a un punto tale da poterne parlare?
Mi piacerebbe, ma non posso. Quando sto lavorando a qualcosa, lo immagino come una bolla d’aria pressurizzata: parlarne, è come pungere un palloncino con uno spillo. L’aria esce e, puf!, non resta più nulla. Non ha idea di quanto mi piacerebbe parlarne, ma non lo farò.
Ma almeno può confermare che Robert Redford sta adattando «I ragazzi Burgess» per la HBO?
Sì, è vero, sono molto eccitata. La sceneggiatura è già pronta, aspettiamo gli eventi.

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