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Il tabù dell’annullamento del debito

Nuova finanza pubblica
MARCO BERSANIITALIA

Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare a ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C.. Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove e il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.
Ma che significa annullare un debito? Significa dare il via a un processo di indagine (audit) indipendente sul debito pubblico per verificare nel dettaglio come, da chi e con chi è stato contratto, per quali obiettivi e interessi e con quali conseguenze per le condizioni di vita degli abitanti.
Significa, in altri termini, dire al Ministro dell’Economia Padoan che la nuova stagione delle privatizzazioni che intende aprire per abbattere il debito - una superholding in cui far confluire tutte le partecipazioni dello Stato sotto il cappello di Cassa Depositi e Prestiti, per poi privatizzare il 50% di quest’ultima - è una trappola a cui non vogliamo più sottostare, perché va rimessa in discussione la legittimità stessa del debito.
La sola idea di un percorso di questo tipo fa inorridire le grandi lobby dei poteri finanziari, le quali - nel più classico stile degli usurai - sono meno interessate all’effettivo saldo di quanto «dovuto», che non al mantenimento della catena che lo stesso pone alle rivendicazioni di reddito, beni e servizi delle popolazioni.
Ma è un passaggio obbligato se si vuole uscire definitivamente dal cappio delle politiche liberiste.
D’altronde, è di nuovo la storia a dimostrare come, quando è stato ritenuto necessario per superiori interessi geopolitici, il debito sia stato cancellato con un semplice tratto di penna dagli stessi creditori: è stato così per la Germania nel 1953, quando la necessità di una Germania Ovest economicamente forte di fronte all’Urss e ai suoi alleati ha permesso la quasi totale cancellazione degli ingenti debiti post seconda guerra mondiale; ed è stato così per l’Iraq nel 2004, quando le nuove autorità, designate dalle forze di occupazione, beneficiarono di una riduzione del debito bilaterale (dovuto ad altri Stati) nell’ordine dell’80%.
Ma è d’altronde lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso, altrimenti non si capirebbe l’esistenza dello spread fra un paese e l’altro. Perché delle due l’una: o si dichiara impossibile il mancato pagamento e allora il denaro dovrebbe essere prestato a tutti allo stesso tasso d’interesse o si presta il denaro a tassi differenti perché si prevede la possibilità del non pagamento, che dunque può avvenire, come affermato nel 1999 dal Consiglio dei diritti dell’uomo, ogniqualvolta. «l’esercizio dei diritti fondamentali della popolazione dei paesi debitori all’alimentazione, all’abitazione, al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e a un ambiente salubre non possono essere subordinati all’applicazione di politiche di aggiustamento strutturale e di riforme economiche legate al debito».

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