La sera del 23 agosto è morto Tulio Seppilli, antropologo e comunista, come voleva essere definito. Ebreo e figlio di un uomo di scienza e di politica, Alessandro, che è stato fra i fondatori dell’«Educazione sanitaria» e di una donna di cultura e di chiara fama e straordinaria intelligenza, Anita Schwarzkopf, Tullio Seppilli nasce a Padova nel 1928 ma a dieci anni, in seguito alle leggi razziali, si trasferisce in Brasile, dove compie gli studi e intanto scopre e vive la densità e la varietà culturale. Poi, tornato in Italia, diventerà assistente di Ernesto de Martino e farà parte di quella «prima» generazione di antropologi italiani che – oggi si deve dire – può essere ricapitolata e intitolata come «scuola».
Dell’antropologia italiana, Seppilli è stato uno dei più attivi e convinti sostenitori e diffusori: in particolare è stato il primo ad allargarne confini oltre le miniere delle tradizioni popolari e a ibridare l’antropologia con la sociologia, promuovendo e perfino precorrendo la nuova antropologia delle «società complesse» o – come più tardi scoprono i francesi - «dei mondi contemporanei». Fin dagli anni Cinquanta, all’Università di Perugia, ha diretto un Istituto di Etnologia e Antropologia culturale che è stato per decenni una formidabile sede di formazione.
Quelli che come me hanno avuto il privilegio di partecipare alla vita e all’attività dell’Istituto di Tullio Seppilli, più che un insegnamento magistrale hanno ricevuto una «iniziazione» professionale, basata sul principio della libertà personale e sul valore dell’impegno collettivo. Seppilli non ha lasciato opere di fama o di moda, ma si è completamente speso in una operatività generosa e infine più ambiziosa, dando vita a decine di centri e progetti di ricerca, producendosi in centinaia di interventi e incontri e convegni e riviste, sempre attento all’efficacia sociale e al valore politico delle sue iniziative.
Come e perché decidere di fare l’antropologo è il tema della sua ultima pubblicazione ma anche il punto interrogativo che è poi il punto di forza di quanti intendono studiare e fare antropologia. Porsi la domanda sul motivo e sul motore della propria disciplina è sempre salutare, ma nel caso del mestiere dell’antropologo è tanto indispensabile quanto fertile. L’antropologia culturale è una strana scienza, che forse non ha un suo autonomo fondamento e un suo esclusivo metodo, ma ha la pretesa di aggiungersi – insieme umile e ambiziosa – alle altre scienze umane.
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Una personificazione di Claude Lévi-Strauss, incaricato negli anni Cinquanta dall’Unesco di mettere ordine o pace fra le diverse scuole antropologiche, rappresenta una Antropologia «che poggia i pedi sulle scienze naturali, si appoggia alle scienze umane e guarda verso le scienze sociali». Tullio Seppilli ha per così dire ricalcato questa immagine, laureandosi in scienze naturali, formandosi nella filosofia, immergendosi nella storia e proiettandosi nel sociale, riuscendo a incarnare una disciplina antropologica che si nutre dei dati e rispetta i metodi di tutte le scienze, ma intanto ne corrobora la sostanza e ne sostiene il senso. Tullio Seppilli è stato un consapevole portatore di questo «valore aggiunto», cioè dell’originalità ma anche della necessità di «fare antropologia», sempre ponendosi la questione del Perché e del Come fare, peraltro nel suo caso mai disgiunta dalla fondamentale antica domanda «rivoluzionaria» del Che fare.
Per Seppilli, quella che lui chiama «l’opzione comunista» non è stata soltanto adesione a un’ideologia ovvero a un partito politico, ma è valsa anche come ausilio scientifico al lavoro e allo studio dell’antropologo: per via – egli scrive – del «costante richiamo a contestualizzare idee, persone, istituzioni, accadimenti, in un orizzonte storico e per il metodo e l’abitudine al lavoro di gruppo», e ancora di più per poter «agire sulla realtà», trasformando ogni ricerca in intervento.
Perché infine, quella che era nei suoi propositi fin dai suoi primitivi studi in Brasile, era «una antropologia come ricerca nel cuore stesso della società, dei suoi problemi e delle sue ingiustizie. Un’antropologia per capire, ma anche per agire, per impegnarsi».