CULTURA

Quelle alchimie sotto verifica

ANNI SETTANTA
DI GENOVA ARIANNA,

Raccontare gli anni Settanta è un'operazione che richiede un certo coraggio, oltre che un rigore intellettuale. Non è semplice inoltrarsi lungo i caotici sentieri di quel decennio. La dimensione performativa, a volte dichiaratamente azzerante (sul tempo, sulla progettualità, sul linguaggio, sulle codificazioni politiche) non aiuta la ricostruzione degli eventi e degli umori.
Nonostante questa certezza di fatica all'orizzonte, Daniela Lancioni ha accettato la sfida e si è lanciata in questa ruvida avventura. È da metà degli anni Novanta, infatti, che la curatrice indaga fra le pieghe di quel decennio denso, non tanto per trovare qualcosa di inedito, ma per offrire un contesto narrativo, per creare una cornice affabulatoria a ciò che era ridotto in frammenti, disperso in foto, video-documentazioni, ricordi, testi, opere. Un patrimonio inestimabile costellato di capisaldi dell'arte e che riconsegna alla prospettiva della storia una rete di gallerie (La Salita di Liverani, La Tartaruga di De Martiis, l'Attico di Sargentini, gli Incontri internazionali d'Arte animati da Graziella Lonardi, ma anche Il Segno di Angelica Savinio, Massimo D'Alessandro e Ugo Ferranti, Il Cortile di Monachesi, solo per citarne alcune) promuovendole a centri propulsori di cultura e dispositivi di pensiero attivo, condiviso. Una pratica - questa della condivisione - completamente dimenticata dalle generazioni successive, nonostante la loro professata «multidisciplinarietà».
La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni Anni 70. Arte a Roma (visitabile fino al 2 marzo) è un naturale approdo di un interesse mai spento; qui Lancioni è come se tracciasse una linea, facesse ordine nel corpus impressionante di materiali accumulati, richiamasse in vita personaggi che hanno attraversato una stagione per molti versi non ancora chiusa. Opera dopo opera si va componendo un puzzle, che lascia fuori campo gli elementi considerati non funzionali al racconto da imbastire.
È esaustivo il quadro che ne esce? No, ma non è questo il punto (per documentarsi, c'è l'ottimo catalogo con i suoi testi). La mappatura non è oggettiva - sarebbe pedissequo e vagamente tassidermico - piuttosto è «ragionata» e immaginata attraverso ritmi di opere, reperite con la tenacia del segugio e che, in alcuni casi (la sequenza di Spalletti, il pianoforte a coda di Kounellis, l'aeroplanino-razzo di Mochetti che sbeffeggiava le guerre, le «mimesi» sdoppiate di Paolini) regalano l'emozione di un à rebours immune da tentazioni nostalgiche. Il vintage è bandito.
I titoletti posti come spartiacque concettuali tra le sale - la carne e l'immaginario, il doppio, l'altro, labirinto - servono al visitatore come segnalatori di presenze, non sono da intendersi «aree tematiche». Come in ogni set teatrale, la messa in scena può contare su alcuni momenti clou (le ultime due stanze del percorso, dove sfilano Mauri, Kosuth, Carrino, di un nitore che esalta l'intelligenza umana) e su alcune «discese», con quelle formulazioni estetiche e linguistiche che non hanno avuto lo stesso impatto di altre sul rivoluzionamento dei codici.
Prima di iniziare il cammino nella foresta di indizi sparsi dagli anni 70 e dai suoi artisti nella capitale, è d'obbligo fare una pausa nella Rotonda, in compagnia delle foto di Abate, Mulas e Piersanti che ripropongono le quattro mostre che segnarono una definitiva cesura col passato: Vitalità del negativo, Fine dell'alchimia, Contemporanea, Ghenos Eros Thanatos. Al centro, disteso, c'è uno dei celebri scheletri di De Dominicis, quello con i pattini e il cane altrettanto ridotto all'osso (Il tempo, lo sbaglio, lo spazio). È un folgorante inizio erratico che procede per via di sparizione, costeggiando la morte. Si comincia il viaggio in compagnia dei fantasmi. Nessuna concessione alla spettacolarizzazione (d'altronde, non era nel dna del decennio), ma un dispiegarsi della «potenza dello spirito del tempo», come lo ha definito la curatrice stessa. Il fil rouge teso tra le sale trova il suo altro capo nei totem video di Luciano Giaccari, notaio di professione che consacrò vent'anni a riprendere performance e happening, a partire dal primo, nel 1971 con Allan Kaprow. Dobbiamo a lui gli «occhi» degli anni Settanta.
Vale la pena ricordare un'opera in particolare: quel Progetto di morte per avvelenamento di Sergio Lombardo: in una teca, vediamo una boccetta con la nicotina grezza e una lettera da aprire dopo l'eventuale suicidio. In campo scende la possibilità di scelta, la laica consapevolezza di voler esserci o non più. Addirittura, intorno a quella boccetta tossica si sviluppò un laboratorio di psicologia. L'oggetto in sé, considerato pericoloso come un'arma, venne poi sequestrato dalla polizia quando uno studente finse di assaggiarne il contenuto e di sentirsi male. Ecco la deflagrazione dell'artificio, che si sostituisce alla realtà.

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