Dirige senza bacchetta ma il microfono lo sa maneggiare meglio di chiunque altro. Antonio Pappano si conferma una volta di più un direttore pienamente contemporaneo, vicino al pubblico e all'orchestra, lontano dalle distaccate, sacrali presenze dei miti direttoriali del passato anche recente. Anche chi non ama i discorsi dal podio non può che condividere lo sforzo con cui Pappano introduce un pubblico talvolta distratto alla musica contemporanea e persino a pagine tutt'altro che ignote del Novecento storico. Così ha fatto, raccomandando perfino l'applauso anche per la qualità dell'esecuzione, se il pubblico la considera meritevole, nel concerto che martedì (ultima delle tre serate) si è aperto a Parco della Musica con la Sinfonia da Requiem di Britten, passaggio conclusivo delle celebrazioni del centenario britteniano, e in ogni caso scelta di programma ben bilanciata accanto al concerto K 488 di Mozart e alla Prima Sinfonia di Brahms. Fra le influenze che il ventiseienne Britten ha distillato nella Sinfonia da Requiem l'esecuzione di Pappano mette soprattutto in luce quelle di Mahler, specie nella danza macabra del Dies Irae centrale, e di Vaughan Williams, senza per questo tradire l'originalità del linguaggio di Britten, e la calibrata misura nella costruzione della splendida pagina sinfonica, antiretorica quanto toccante.
Un tratto d'intensità che contraddistingue anche l'esecuzione della Prima Sinfonia di Brahm, la più riuscita di quelle proposte nelle stagioni precedenti con l'Orchestra dell'Accademia: esecuzione accesa e luminosa, forse a scapito dei passaggi più umbratili e malinconici. Nei movimenti centrali un'enfasi danzante esaltava le singole invenzioni melodiche, anche a rischio frammentare in episodi il disegno complessivo della sinfonia, mentre il finale ritrovava, con procelloso entusiasmo, le ragioni e il rigore formale della grande pagina Brahmsiana. Il concerto di Mozart segnava la prima collaborazione con il pianista Radu Lupu, che ha risposto alla lettura orchestrale brillante e sanguigna con un'esecuzione assai felice, per asciuttezza leggerezza, totale assenza di manierismi e infine qualità di un suono che appartiene a Lupu e a lui soltanto. Libertà quasi rapsodica e suono di ipnotiche virtù ritrovati poi nell'applauditissimo bis mozartiano, la fantasia in re minore K 397.
La sala grande del Conservatorio di Santa Cecilia, una delle antiche sedi dei concerti dell'Accademia, ha ospitato sabato scorso, per la stagione di Nuova Consonanza, la creazione del ciclo di lieder per orchestra Le ceneri di Gramsci, del compositore tedesco Manfred Trojahn.
Una ulteriore benemerenza per Nuova Consonanza, che ha presentato questa prima assoluta al termine di un seminario dello stesso Trojahn , noto e apprezzato didatta, tenutosi nei giorni precedenti al Conservatorio. Poco conosciuto in Italia, Trojahn, è un artista che ha speso un'esistenza intera alla ricerca di un linguaggio proprio verso la modernità, rifuggendo le appartenenze alle avanguardie e la negazione aprioristica della tonalità. Non a caso uno dei suoi punti di riferimento è sempre stato Hans Werner Henze, la cui influenza si faceva a tratti evidente nella scrittura sapiente e frastagliata delle sei liriche, con un ben dosato equilibrio fra abbandono lirico e plumbee asperità, attentamente modellato sulla parola poetica di Pier Paolo Pasolini, colta nella sua commovente solitudine e unicità. La presenza dell'Orchestra da camera musikFabrik, guidata con la consueta sensibilità e precisione da Peter Rundel offriva le migliori condizioni al canto del baritono Dietrich Henschel, interprete elegante e preciso, anche se di voce leggermente aspra, dalla perfetta, perfino troppo esibita, pronuncia italiana.