VISIONI

La baldanza militare dell'eroe perdente di Giuseppe Verdi

LIRICA - «Ernani» all'Opera di Roma, dopo 25 anni di assenza
PENNA ANDREA,

A chiusura dell'anno dedicato al bicentenario verdiano e per inaugurare la nuova stagione, l'Opera di Roma ha portato sulle scene Ernani, che mancava dalla capitale da quasi venticinque anni. La preparazione del titolo inaugurale è stata ultimata in giornate assai travagliate per il teatro, nell'imminenza del cambio di vertice, per le naturali scadenze del cda in carica, scaduto il 4 dicembre, fra pesanti incertezze sui conti economici, minacce di sciopero (poi rientrato), voci di commissariamento, forti richieste di un segno di discontinuità gestionale a fronte dei buoni risultati artistici.
Nello spazio delle sette recite, dal 27 novembre allo scorso sabato 14 dicembre, all'orizzonte pare profilarsi più sicuro l'arrivo come sovrintendente di Carlo Fuortes, forte della efficace gestione commissariale del Teatro Petruzzelli, ma a tutt'oggi sempre alla guida di Musica per Roma, alla quale difficilmente vorrà rinunciare.
Tutto questo avverrebbe, sotto l'egida dell'assessore Barca, con il necessario assenso di Riccardo Muti, che resta la vera carta vincente delle stagioni del teatro romano, come dimostra, sul piano musicale, anche il recente Ernani. Muti replica un disegno interpretativo già stabilito in anni giovanili e nelle recite scaligere, che si fonda sul doppio carattere dell'opera, accesa e spavalda in ampie porzioni dei primi due atti, sollevata da un colpo d'ala a partire dal terzo atto, probabilmente il vertice dell'opera, con un deciso approfondimento formale e drammaturgico rispetto ai precedenti esiti verdiani.
Nel precisare tale lettura, Muti alterna passaggi fiammeggianti fino alla baldanza militare (nelle strette e nei finali d'atto) a preziose levigature che talora richiedono a solisti e coro (in ottima forma) di sostenere un canto quasi a fior di labbro, mentre un variegato disegno agogico innerva i duetti, muove arie e le cabalette, con relative riprese.
Un gioco di sbalzi, di fiammate e cupe lumeggiature che resta vivacemente ancorato alla «tinta verdiana» (un esempio il duetto Don Carlo-Elvira nel primo atto e la scena che ne segue, come pure l'intero finale) ma non ne dimentica le ascendenze belcantische, e si giova particolarmente di una compagnia giovane, ancorché sostanzialmente in regola con i fondamentali del canto verdiano.
Su tutti emerge il Silva sontuosamente cantato di Ildar Abdrazakov, che ne coglie il carattere altero senza rinunciare alla morbidezza del canto. Luca Salsi centra la sua aria e conferisce a Don Carlo la necessaria maestà al momento dell'ascesa alla corona imperiale, contendendo gli eccessi nel declamato.
Tatjana Serjan, voce sempre svettante, supplisce alla fragilità della «cavata» con intelligenza interpretativa e canto saldo. Resta Francesco Meli, che all'Ernani tribunizio di alcuni interpreti storici, taglio peraltro inadatto al suo strumento, sostituisce un personaggio che nel canto lucente e appassionato e nella freschezza timbrica trova i tratti più convincenti, rinforzando la prospettiva romantica dell'eroe giovane schiacciato dal destino avverso, che aveva appassionato il pubblico del dramma di Hugo.
La regia di Hugo de Ana affolla le monumentali e incombenti scene (citazione della facciata del palazzo di Carlo V a Granada, modificato da pareti mobili e proiezioni, con le ottime luci di Vinicio Cheli) di una pletora di cortigiani, dignitari, alabardieri, dame e cavalieri, abbigliati più che sontuosamente, ma non riesce a muovere le masse adeguatamente (con l'unica parziale eccezione della scena di Aquisgrana) e convince anche meno nelle scene più raccolte, come nel quarto atto.
Al pubblico non sembra importare troppo, e tributa a tutti un successo caloroso.

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