VISIONI

La bella Sélika, regina della tradizione

LA FENICE · «L'Africaine» di Giacomo Meyerbeer a cura di Leo Muscato
PENNA ANDREA, VENEZIA

Anche se il palcoscenico della Fenice di Venezia non è più lo stesso dove nacque la Traviata nel 1853, il teatro veneziano, che ha trasformato in un successo da tutto esaurito l'opera verdiana Traviata con la regia di Robert Carsen, ormai oltre la terza ripresa in tre stagioni, continua nella linea stabilita nell'ultimo decennio, con il recupero di titoli importanti dell'Ottocento operistico francese. L'Africaine di Giacomo Meyerbeer, esito postumo del compositore simbolo del genere «grand'opéra», e del suo librettista principale, Eugène Scribe, è sicuramente un'opera assai impegnativa da portare sulla scena, per dimensioni, necessità di allestimento, impegno delle parti vocali e non ultimo le complesse problematiche relative alle versioni esistenti di un'opera principiata nel 1837 e portata sulle scene dell'Opéra parigina nel 1865, dopo la morte dei suoi creatori. La Fenice per la nuova produzione ha scelto di affidarsi al regista Leo Muscato, mentre sul podio è salito Emmanuel Villaume, considerato specialista del repertorio patrio. L'orchestra veneziana sembrava però pagare più del coro (preparato da Claudio Marino Moretti) lo scotto di mesi di lavoro assai intenso, e il disegno direttoriale, efficiente nel seguire la narrazione e nell'accompagnare il canto, presentava una paletta molto ridotta di colori, mentre talvolta l'ampleur scadeva in violente esplosioni sonore. Gregory Kunde, artista di grande finezza e voce importante, perno dell'intera compagnia, offriva un Vasco de Gama eroico e di bel fraseggio, anche se lontano per ragioni anagrafiche dalla freschezza giovanile connaturata alla parte. Freschezza e flessibilità erano tratti invece salienti del canto di Jessica Pratt ( Inés) e Veronica Simeoni ( Selika), impegnate al meglio in quanto rimaneva delle rispettive parti; quella di Inés è la più penalizzata dai tagli, specie per l'assenza del duetto nel quinto atto. La versione utilizzata era infatti, al pari delle altre riprese moderne, fortemente snellita, ma sono in verità alcuni micro-tagli operati all'interno di scene e duetti a far soffrire maggiormente la partitura, talora alterata negli equilibri armonici e nelle stesse strutture formali, incidendo anche sulla pregnanza drammaturgica di alcuni personaggi. Accanto al ruvido ma apprezzabile Nélusko di Angelo Veccia, fra le parti di fianco emergevano il sacerdote di Rubén Amoretti e Don Pedro, cantato da Luca Dall'Amico. Nell'idea di Leo Muscato sono i preludi strumentali a contenere, con proiezioni e immagini il presagio di una modernità futura dell'oceano indiano e dei suoi territori, con i drammi e le violenze del colonialismo e del postcolonialismo più recente. Ma è l'unica elaborazione sul tema dell'imperialismo coloniale, mentre sulla scena la narrazione procede su binari complessivamente tradizionali (Massimo Checchetto firma le scene, i bei costumi sono di Carlos Tieppo). Nel quarto atto la scena del corteggio della regina Sélika, con il suo immenso mantello serico, recupera qualcosa dello stupore teatrale del grand opéra, che altrove è solo suggerita, quando non aggirata a beneficio di un'intimità più consona all'opéra lyrique, come nella pur toccante scena della morte.

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