CULTURA

I taccuini smarriti della memoria

SCAFFALE - «Exchange Place, Belfast» del poeta irlandese Ciaran Carson
TERRINONI ENRICO,

Un classico, secondo Calvino, è un libro che riposa nelle pieghe della memoria. È facile provare un certo sollievo, e insieme una particolare e lieve angoscia, nel riflettere su come un oggetto tanto materiale nella sua solidità, quanto arioso per l'evanescenza di quel che «contiene», possa finire per annidarsi tra gli sfuggenti depositi mnestici che compongono il nostro ricordare. Un classico è un'opera che va letta lentamente, senza fretta, con l'agio che solo la meditazione di un vivere poco frenetico ci consentirebbe.
Di libri del genere, si dirà, non se ne trovano spesso, oggigiorno. Finita l'età classica, sembra lontana anche l'epoca in cui spuntava, di tanto in tanto sugli scaffali di una libreria qualche novità editoriale che sentivamo sarebbe, prima o poi, divenuta un must. Infatti, checché se ne dica, esistono anche capolavori della modernità scritti l'altro ieri. Come ricorda Pontiggia, i classici sono i contemporanei del futuro, e spesso dobbiamo ancora abituarci a stare al passo coi loro tempi.
Un lettore dei nostri giorni, soprattutto in Italia, dopo la sciagurata mercificazione della letteratura che è sotto gli occhi di tutti, non si aspetta quasi più di reperire fortuitamente un libro del genere, ovvero un'opera fresca di stampa che si posi e riposi nelle pieghe della memoria per poi non lasciarci mai più; come un amore, o uno sguardo di morte. Il nostro tempo non ci concede tempo, si dice, e i libri, come gli amori, oggi come oggi vanno consumati in fretta. Proprio come le morti; i libri vanno dimenticati. Soprattutto certi generi, il noir ad esempio, o il mystery novel, che tanto arricchiscono le case editrici di questo scorcio di secolo.
Stupisce allora trovare in libreria, proprio in queste ore, un romanzo come Exchange Place, Belfast (Del Vecchio editore, traduzione di Eleonora Ottaviani, pp. 230, euro 14), firmato dal grande poeta irlandese Ciaran Carson. È una storia di mistero, di doppie identità, ambientata a metà tra Parigi e la capitale del Nord Irlanda: un racconto che sin dalle prime righe si preannuncia come qualcosa da leggere con la dovuta lentezza. Non solo per carpirne la trama, sfuggente quasi fosse sabbia tra le dita, eppure intessuta con l'avvedutezza e lo stile rarefatto di un «narratore lirico»; ma soprattutto per assaporarne il mosaico di echi e rimandi a opere di filosofi, scrittori, musicisti, artisti e quant'altro, riscritti e trascritti con una prosa precisissima e tagliente. È un affabulare che segue percorsi erratici, ma sempre calcolati con lucidità, come in un arrangiamento retrospettivo, come riflessi nello specchio incrinato di una traduzione sapiente.
Le vite parallele dei due protagonisti, John Kilfeather e John Kilpatrick, incrociano i profili fugaci di amici pittori scomparsi, Bourne/Browne e Harland. Sullo sfondo gli ordigni piazzati dai dissidenti repubblicani in una Belfast da caos calmo, ma anche la Parigi del Pernod e dell'assenzio, di Modiano e di Proust, in un gioco di specchi che confonde e attrae sempre di più; ma lentamente.
Questo fino ad una fine sfumata, quando l'altalena dei doppi e l'alternarsi dei sosia si infiltra tra le maglie di una rincorsa di equilibri insondabili e plurali: gli equilibri stessi del nostro stare in scena sul palcoscenico del mondo. Nel libro le ombre, i fantasmi di una memoria regina dell'incertezza, sono affidate a taccuini smarriti, riposti in ordine confuso: archivi scomposti in cui si mescola plagio e riflessione. Il che contribuisce sin dalle prime pagine all'atmosfera di assoluta indeterminatezza che aleggia su questa storia.
Raramente un libro la cui trama non si lascia carpire con facilità tiene incollati i sensi di un lettore pronto a lasciarsi incantare dalla musica delle parole. Eccoci finalmente un testo al cui raffinato stile la traduzione italiana rende merito. Questo perché, in parte, Exchange Place. Belfast è anche un'opera sulla traduzione: «L'umanità intera è di un autore solo, e sta in un solo volume; quando muore un uomo, non viene strappato un capitolo dal volume, ma viene tradotto in una lingua migliore; e ogni capitolo deve essere così tradotto... certe parti sono tradotte dall'età, altre dalla malattia, altre dalla guerra, altre dalla giustizia».
E per di più, eccoci un libro scritto da un traduttore vero, che qualche anno fa si cimentò nientemeno che con l'Inferno di Dante Alighieri, ma anche traducendo in inglese l'epica classica irlandese. Il libro, allora, è coronato a proposito - e felicemente - da una confessione rivelatrice in prima persona dell'accorta traduttrice italiana, che ci parla del suo corpo a corpo con un testo tanto complesso e stratificato quanto una partitura musicale a più voci.
È uno stile, quello di Carson, che si confronta con lo stile dei grandi. I dialoghi, ad esempio, incastonati nel corpo della prosa accanto alle descrizioni, che essi stessi lambiscono fino ad offuscarne i limiti, ricordano il Saramago migliore, mentre l'ossessione mnemonica ci riporta al monito di Walter Benjamin secondo cui «la famosa memoria involontaria di Proust è molto più vicina al dimenticare che al ricordare». Il mistero implica la ricerca; ma la ricerca e l'apprendimento, «come Socrate dice a Menone... sono un ricordare. Tu già conosci ciò che sembra ignoto; tu sei già stato qui, ma soltanto quando eri qualcun altro».
Il libro di Carson, nel «ricordare» obliquamente la voce di tanti giganti a cui il nostro poeta deve molto (Joyce, Benjamin, Cocteau, Glenn Gould, Hoffmann, Freud, Orwell, Shakespeare, Francis Bacon, John Florio, Montaigne e Coleridge) ha molto da insegnare ai professionisti del mistero, i quali, non sempre attenti al richiamo della complessità, smerciano a buon mercato e per cinica connivenza con gli impliciti del capitale, storie logiche, consequenziali, e segreti già svelati: racconti, insomma, che spesso è meglio non far riposare tra i nostri ricordi, o almeno, tra quelli piegati, riposti e messi via, nei profondi cassetti della memoria.

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