Il testo di Boris Vian, La schiuma dei giorni (L'écume des jours), il libro che Gallimard pubblicò nel '47, nelle mani di Michel Gondry (il regista di Se mi lasci ti cancello) si apre come un origami multicolore, un magnifico apparato di invenzioni, un viaggio al cuore del senso della vita, ma in qualche modo seguendo una traiettoria opposta a quella di Terry Gilliam. Sovrabbondante di creatività è stata anche la breve vita di Boris Vian e il film ci trasporta direttamente nella cultura parigina degli anni Cinquanta attraverso una lente pop, senza perdere il gusto patafisico del gioco dissacrante, né la quantità di riferimenti amati dallo scrittore musicista. Raymond Queneau che lo raccomandò a Gallimard, diceva che il suo era un libro che si doveva leggere nel corso di tutta la vita, a diciotto fino a ottant'anni, per scoprire sempre qualcosa di nuovo. Come un piccolo principe anarchico. Quanto Gilliam è rocambolesco tanto Gondry tende al disegno pulito e trasforma anche i suoi attori in figurine: il sorriso stampato di Colin (Romain Duris), Audrey Tatou, che ha già stabilito nel cinema francese un percorso fiabesco, nella parte di Chloé, lo sguardo allucinato di Chick (Gad Elmaleh), tanto infatuato del suo filosofo prediletto «Jean-Sol Partre» da rovinarsi economicamente con la mania di acquistare tutte le edizioni dei suoi libri e perfino il ruvido tailleur di Simone de Beauvoir da regalare alla sua ragazza che mai si deciderà a sposare.
La vita scorre facile per Colin, è ricco, i suoi mobili meccanici gli vengono incontro, il suo chef è magistrale, perfino il topino di casa ha una sua saggezza. L'esplosione delle costruzioni meccaniche, non virtuali cercano di dare l'assalto al testo - già di difficile traduzione per le invenzioni linguistiche, pendant di quegli oggetti semoventi - compagni di gioco della situazione anarchica, pendant della polemica pungente, della straziante denuncia dello sfruttamento dei lavoratori, fino alla negazione del lieto fine tanto sospirato dalle platee. Insomma una presa in giro sia dell'essere che del nulla.
Quando Colin incontra Chloé, la donna della sua vita, ecco che altri oggetti strabilianti prendono vita, come la nuvola che li trasporta in volo sopra Parigi, la limousine trasparente in viaggio verso il picnic multischermo, metà sotto la pioggia, metà al sole. E poiché la felicità non dura, un altro oggetto sboccia, la ninfea che cresce nel polmone di Chloé. Allora tutto cambia verso un inarrestabile declino, i colori sbiadiscono, la meravigliosa abitazione si rimpicciolisce ogni giorno di più ed entra in scena il «nemico», il lavoro, nelle sue forme più opprimenti. Chi abbia rivisto recentemente Un monsieur de compagnie di Philippe de Broca dove Jean-Pierre Cassel esplodeva di vitalismo contro il lavoro, spumeggiante sogno nei colori pastello anni '60, avrà trovato un prototipo interessante. Il finale tragico non può mancare in questo gioco a incastro dove il sorriso di Méliès se la ride del documentarismo d'assalto, del reportage, della docufiction. Qui contano solo due cose, l'amore e Duke Ellington, proprio come scriveva Boris Vian (da cui il titolo Mood Indigo aggiunto dai distributori).