VISIONI

Un jazz d'autore dall'afflato felliniano

FRANCO D'ANDREA SUL PALCO DEL MITO
LORRAI MARCELLO,MILANO

In apertura di serata, intestata al suo Sextet con guest Dave Douglas e Han Bennink, dal palco del Teatro Manzoni Franco D'Andrea annuncia che inizierà in piano solo. Ha giusto cominciato ad improvvisare, e sta appena emergendo un Take The A Train, che in scena, brandendo una sedia di legno, irrompe Bennink: si butta per terra e senza tanti complimenti comincia a percuotere la sedia con le bacchette, con quella sua aria da impenitente Dario Fo della musica improvvisata. Sembra un siparietto concordato ma non lo è: il duo con Bennink avrebbe dovuto essere più tardi, ma l'alfiere dell'improvvisazione radicale europea non si è tenuto. Del resto D'Andrea sapeva benissimo chi si portava in casa, con Bennink: oltre alla confidenza con i suoi cinque fidati musicisti, se c'è una cosa che non è improvvisata, nelle due esibizioni del pianista per MiTo (la prima l'8 al Regio di Torino, distesa fra pomeriggio e sera e più articolata fra solo, i duo con gli ospiti, trio, quartetto e sestetto, la seconda il 10 a Milano tutta in serata), è l'intesa con il trombettista americano e con il batterista olandese, ospiti non occasionali.
Il rapporto con Bennink è nato da uno specifico interesse di D'Andrea, che un paio d'anni fa lo ha invitato a unirsi al suo trio con Daniele D'Agaro, clarinetto, e Mauro Ottolini, trombone. Con Douglas, uno dei primattori del jazz di oggi, la conoscenza era già precedente: in una jam session nell'ambito dei seminari che D'Andrea conduce a Merano, Douglas, lì con un proprio gruppo, era rimasto colpito da come D'Andrea impiegava gli accordi in un pezzo degli anni trenta. Da questa prima scintilla l'invito ad esibirsi come guest del quartetto di D'Andrea, con Andrea Ayassot ai sax, Aldo Mella al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria, e diversi concerti assieme in questi ultimi anni: e al Manzoni Douglas si è inserito nel gruppo senza atteggiamenti da star, da musicista di valore fra altri musicisti di valore. Estremamente scrupoloso, con idee molto precise nel perseguire con determinazione l'elaborazione di una propria poetica personale, e interessato a circondarsi di partner con cui l'affiatamento è profondo, D'Andrea è al contempo un musicista estremamente aperto alla novità dell'incontro, e appassionato all'elemento dell'estemporaneità nel fare musica.
E che D'Andrea, persona di garbo squisito e che si presenta così «regolare», voglia con sé un estroverso guastatore come Bennink non va preso come una trovata ma è indicativo di una personalità (del resto Bennink, anche quando dà fondo al suo folclore, è sempre musicalissimo). Jazzman fino all'osso, D'Andrea non ama, né quando si esibisce in solo né con i suoi gruppi, costruire a tavolino la scaletta dei suoi concerti: il perché al Manzoni lo si è visto benissimo, nella spontaneità con cui i brani sono stati proposti, nella freschezza degli interventi solistici, nella palpabile soddisfazione dei musicisti nell'essere chiamati a co-indirizzare la musica, in una dialettica di matura condivisione dei materiali e di ricca iniziativa individuale. Dal mazzo dei brani a disposizione sono venuti fuori brani originali di D'Andrea e classici come Blue Monk e Monk's Mood, King Porter Stomp e il tristaniano Turkish Mambo, e un Caravan prima evocato da Douglas e da Ottolini, poi fatto proprio dall'ottetto, in una interpretazione magica, quasi felliniana. D'Andrea ha conservato un profondo amore per il jazz da cui è partito, quello degli anni venti e trenta, e in molti momenti la formazione suona con un'esuberanza dixieland: un amore di cui si nutre anche la sua sapienza nell'orchestrare, nel valorizzare le voci dei singoli, nel giocare sui timbri. Ma D'Andrea, 72 anni, dovrebbe essere portato ad esempio ai troppi giovani jazzmen di oggi che coltivano un comodo passatismo. D'Andrea non culla gli ascoltatori col passato, ma lo usa come carburante del presente: e al Manzoni veniva da pensare, non solo per la suggestione di Bennink, allo spirito degli omaggi alla tradizione della Instant Composers Pool. E, benché forte di un pianismo la cui densità jazzistica ha oggi pochi rivali (non solo in Europa), D'Andrea è anche un eccezionale bandleader capace in questa veste di farsi pianisticamente quasi schivo, impegnato a dirigere dal e col pianoforte, più che a mettersi in vista.

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