VISIONI

«L’arte misura le nostre emozioni»

HONG SANGSOO · Il filmaker sudcoreano parla della sua nuova opera «Our Sunhi»
ERMINI CECILIA,LOCARNO

Il panorama mozzafiato dell'hotel Belvedere fa da perfetta cornice alla voce placida e profonda, come il lago che osserviamo dall'alto, di Hong Sangsoo, regista sudcoreano in concorso con Our Sunhi. Hong Sangsoo, con una grazia simile alla sua macchina da presa, accende una sigaretta dietro l'altra, alternando silenzi, boccate di fumo esistenziali e disegnando su un foglio i movimenti di macchina, i banconi dei bar dove ha girato, i personaggi del suo film.

«Our Sunhi»può essere considerato uno spietato ritratto dell'intellettuale medio sudcoreano?
La mia intenzione non era fotografare la vita intellettuale della mia gente, non faccio un film con l'intenzione di rappresentare qualcosa e la mia idea iniziale non è mai quella di lanciare un messaggio. Credo che il mio modo di concepire il cinema sia semplicemente l'accettare quello che mi accade davanti agli occhi, il rispondere alle cose che mi colpiscono e questo procedimento lo applico anche agli attori che mi stanno intorno. Anche senza avere uno script pronto, chiedo subito a un attore se è disponibile a lavorare con me ed è quello che mi è successo con Lee Sunkyun, il giovane studente del mio film.

Per quanto riguarda la giovane protagonista Jung Yumi invece?
Ho sondato la sua disponibilità dopo aver ricevuto il sì da Lee. Grazie a quei due assensi, ho cominciato a elaborare la sceneggiatura del film anche grazie ad un particolare episodio accaduto prima dalla stesura del film. Una mia ex studentessa, mi chiese di scriverle una lettera di referenze. Accettai di buon grado ma due giorni dopo mi telefonò arrabbiata, pregandomi di riscriverla perché non le era piaciuta la descrizione che avevo fatto di lei.

Il fascino del suo film sta anche in questa consapevolezza dell'impossibilità, dei guasti del linguaggio e della parola. Riflessione intenzionale o fortuita?
C'era per certi versi l'intenzione di parlare di questo e forse per la prima volta l'idea di partenza era proprio quella di analizzare il linguaggio verbale. Sono un professore e sono obbligato ad usare le parole ma con cautela! Il linguaggio è pratico e ci serviamo di lui per descrivere cose e persone ma allo stesso tempo le parole sono molto limitanti e non appena definiamo qualcosa è come se smettessimo di osservarla. Dobbiamo usare le parole ma stando molto attenti a non dimenticare lo sguardo osservativo.

Esiste un metodo più efficace delle parole per descrivere qualcosa o qualcuno?
Abbiamo l'arte, lo strumento migliore per descrivere le nostre impressioni su una persona o su una situazione. L'arte lavora su elementi contrastanti utilizzando un solo corpo, noi pensiamo che questi elementi siano conflittuali ma in realtà si tratta di logica e l'arte può trascendere il caos e confluire in un unico canale.

Come lavora con i suoi attori? La loro naturalezza suggerisce una lunga preparazione...
Capisco la sensazione ma in realtà i miei attori non hanno mai lo script definitivo. Comunico a loro soltanto la professione del loro personaggio e li convoco sul set verso le 9 del mattino. Io arrivo alle 5 e inizio a scrivere le scene che a breve dovranno girare, di solito ci impiego tre, quattro ore e preparo così le scene da girare in quel preciso giorno.

Nel suo film l'alcol e il bere sono elementi fondamentali della narrazione. Cosa rende l'alcol un elemento così «filmabile»?
Come ho detto prima, non c'è mai l'intenzione primaria di filmare qualcosa. Accumulo i moti del mio animo e li lascio uscire fuori. In questo processo non ho idea di come e quali cose compariranno ma posso dire che il bere è una parte importante della mia vita.

Tornando alla naturalezza dei suoi lavori, l'impressione è che dietro a questa sottile brezza di casualità e improvvisazione, vi sia in realtà un meccanismo ad orologeria perfetto. Come riesce a provocare questa sensazione?
Non lo so, forse perché ogni volta la macchina da presa si muove lentamente verso i personaggi o forse perché con i miei attori mi incontro spesso fuori dal set per creare un'atmosfera familiare

Pochi registi oggi posso permettersi di non aver uno stile ma un metodo e lei è sicuramente uno di questi. Quale pensa che sia la differenza fra stile e metodo?
Penso che scegliere e standardizzare dei movimenti di macchina, e dunque creare uno stile, sia una cosa da evitare assolutamente. Non concepisco nemmeno i miei movimenti per scioccare o provocare una reazione fra gli spettatori, non voglio costringerli a provare delle emozioni e voglio essere libero di provare le mie, senza pensare al pubblico. Questo è il mio metodo e qui sta la differenza.

Il cinema contemporaneo sudcoreano, come ad esempio Kim Ki Duk, ha fatto della provocazione e della violenza il suo marchio di fabbrica. Lei si muove invece in un territorio completamente diverso, fatto di piccole cose e di impercettibili movimenti. Come si rapporta con un'industria cinematografica così diversa e con i suoi autori?
Ora con la mia casa di produzione e il mio team, e budget bassi, posso permettermi di non aver più nessun tipo di pressione esterna. Per quanto riguardo i miei colleghi, non li vedo molto spesso ma alcuni li apprezzo molto, come Kim Ji-woon e Im Sang-soo.

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