REPORTAGE

A Goma, la città dell'assedio infinito

CONGO
BENEDETTELLI MARCO, GOMA

Corrono impazzite le gip per le strade di Goma, traboccano di soldati armati fino ai denti. Le granate e i mortai sono tornati ad esplodere oltre il profilo del vulcano Nyiragongo che domina la città nera di lava pietrificata. La capitale regionale del Kivu Nord è di nuovo sotto assedio, la guerra nell'est della Repubblica Democratica del Congo non ha fine. La linea del fuoco è a pochi chilometri, retrocede, avanza. Da una parte le Fardc, l'esercito regolare della repubblica del Congo. Più a nord, dentro la foresta pluviale del Virunga Park (il Parco del Vulcano) le formazioni ribelli dell'M23 mantengono le loro postazioni.
È dagli anni '90 che le regioni del Kivu Nord e del Kivu Sud non conoscono pace. Nei parchi nazionali della zona, nel profondo di foreste primordiali dal sottosuolo incredibilmente ricco di materie preziose - oro, coltan, diamanti - si agita un caleidoscopio di bande ribelli armate fino ai denti, in guerra fra loro e contro l'esercito congolese. L'emergenza umanitaria in corso è una delle più gravi al mondo. Gli sfollati, tra Kivu Nord e Kivu Sud, sono due milioni. Sparpagliati attorno Goma si contano 45 campi che accolgono i profughi fuggiti dai villaggi sotto il fuoco dei mortai, scacciati di casa dalla guerriglia e dal suo corollario di saccheggi, rappresaglie, stupri, rapimenti.
L'M23 è solo il più famoso dei gruppi ribelli che martoriano le regione orientale della RD Congo. Disegnare una mappa delle bande ribelli e delle zone di scontro con il Fardc è complesso. Le sigle delle formazioni che si spartiscono la giungla sono dozzine: M23, Fdlr, Mai Mai, Rai Mutomboki e tante altre. Sempre a metà luglio i ribelli ugandesi di Adf/Nalu (Forze democratiche alleate) insieme ai miliziani somali di Al Shabaab hanno attaccato e predato le zone nel territorio del Beni, ancora Kivu Nord. E con loro, uniti in una inedita alleanza che ha lasciato sgomenti i ministeri dell'Africa centrale, erano schierati i somali del Al-Shabaab. 66mila persone, terrorizzate, dai villaggi occupati hanno cercato rifugio oltre il confine ugandese. Tutto questo mentre, qui in Italia, il vicepresidente del Senato Calderoli insultava la ministra Cécile Kyenge e con lei un intero popolo afflitto dalla guerra.
I 20 mila caschi blu dell'operazione Monusco, una delle più grandi del mondo, presidiano la zona, disseminata di caserme, di contingenti da tutto il mondo, di mezzi blindati e pick up che vanno e vengono. Ma la missione, in quindici anni di operatività, è riuscita a fare ben poco per pacificare la zona ed è accusata da gran parte della società civile di inettitudine. In Kivu il sottosuolo è ricchissimo di giacimenti d'oro, di cassiterite da cui si ricava stagno, e coltan da cui si estrae il tantalio che è una componente essenziale per la produzione delle nuove tecnologie: telefoni cellulari, computer, videogiochi, dvd. Secondo le stime, il Congo possiederebbe tra il 64 e l'80% delle riserve mondiali di coltan. Ma questa fonte inesauribile di guadagno finisce tutta nella spirale del contrabbando, attraverso le porose, quando non inesistenti, frontiere con Rwanda, Uganda e Burundi. Armi in cambio di diamanti e materiali preziosi, è questo il mercato che alimenta la guerriglia. «I vari gruppi di guerriglieri stanno lì a spartirsi un territorio ricco di minerali preziosi. Il motore della guerriglia è l'oro, la voglia di controllare i nuovi giacimenti scoperti e che noi congolesi ignoriamo», è il pensiero condiviso, che tutti ripetono nei villaggi e nelle città del Kivu.
Goma è da venti anni una città assediata. Ville dei funzionari delle Nazioni Unite cinte di filo spinato si alternano a baracche decrepite, tirate su sopra stradoni lastricati di magma nero. Tensioni, traumi e ferite fresche si percepiscono anche a Bukavu, il capoluogo del Kivu Sud. Le due città distano fra loro 110 km di traghetto, si trovano sulle rive opposte del grande lago Kivu. In tutta l'area, dal 2009 ad oggi, l'Ufficio delle Nazioni per gli Affari Umanitari in Congo (Ocha) ha calcolato in due milioni il numero degli Idp, Internally displaced person (chi abbandona la propria dimora per colpa della guerra o di catastrofi naturali, ma non esce dai confini del proprio stato). «Sono cifre fluttuanti - spiega Gloria Ramazani, dell'Unhcr Goma - molti sfollati vanno e vengono dai propri villaggi, pronti a scappare appena si riscatena il caos. Solo nelle tendopoli attorno a Goma oggi si contano 175mila fuggitivi. In più ci sono i profughi non registrati, che vivono ospiti di famiglie o in baracche di fortuna. Una massa di gente impossibile da conteggiare».
Nel campo di Mugunga 3, il più grande di Goma, vivono 17 mila persone. Una distesa di tendoni delle Nazioni Unite riempiono l'orizzonte, issati fra i neri spunzoni lavici che il Nyragongo ha eruttano nel 2002. Kayba, una donna ancora giovane dai lineamenti sottili e il mento affusolato, è una delle portavoce del campo: «Eravamo nella chiesa del villaggio, c'era la messa. Poi fuori abbiamo sentito degli spari, delle esplosioni di granate - racconta - Ci siamo chiusi dentro, i ribelli del gruppo M23 stavano attaccando i nostri villaggi. La nostra famiglia è riuscita a fuggire divisa. Prima cinque persone, poi altre cinque. Sono arrivata a Goma a piedi con i miei figli. Ora i guerriglieri si sono impossessati delle nostre case, ma spero di tornare un giorno nel mio villaggio di Bukombo, nel territorio del Rutshuru». E continua: «Da anni i gruppi armati che vivono nascosti nella giungla tormentano le nostre vite. Razziano campi e stalle, stuprano sistematicamente le donne, rapiscono i ragazzini e li costringono ad arruolarsi». Su e giù per i viottoli del campo profughi non si contano le donne e i bambini ancora traumatizzati. Sguardi fissi e spenti, persone che chiedono un po' di cibo, soldi, confusi come chi è rimasto travolto da una calamità inesplicabile. In uno dei due ospedali di Mugunga 3 - gestito da Medici Senza Frontiere e dai Cavalieri di Malta - si combatte quotidianamente contro malaria, malattie sessuali, problemi legati all'alimentazione, oltre che coi traumi psichici che tormentano gli sfollati. Ogni persona ha a disposizione 4 etti di mais al giorno, i pasti vengono distribuiti una volta al mese per tutti i nuclei familiari.
Nella regione confinante del Kivu Sud gli Idp conteggiati sono più di 73mila. A Bukavu vivono circa 20mila sfollati in centinaia di capanne improvvisate che da tre anni si ammassano sui promontori attorno al lago. L'esodo dei rifugiati coinvolge anche gli stati confinanti, come il Rwanda. Qui, lungo la strada che dalla capitale Kigali porta verso Bukavu, alle porte della immensa foresta primordiale di Nyungwe si incontra il grande campo di Kigeme. Il luccichio dei tetti di lamiera si intravede a chilometri di distanza. C'è chi si approvvigiona d'acqua ai pozzi disseminati sulla strada, mentre i bambini giocano intorno alle palizzate dell'Unhcr. Baracche e tende ricoprono tutta la collina brulla e arsa. Ci vivono dentro 14mila rifugiati congolesi di origine ruandese. Sono figli di quei tutsi fuggiti in RD Congo dopo i pogrom che gli estremisti hutu scatenarono in tutto il Rwanda tra il 1959 e il '62.
La Repubblica democratica del Congo è uno stato incompiuto, una repubblica fallita. Tutti i giudizi della comunità internazionale convergono su questa constatazione. L'ex Zaire è una nazione senza infrastrutture, mai nata e fatta ancor più a pezzi da una guerra ventennale. Le istituzioni latitano e la classe politica è spaventosamente corrotta. Un parlamentare guadagna 13mila dollari al mese, un professore 30. Ad aggravare la situazione c'è il rapporto conflittuale con gli stati confinanti dell'Africa Centrale, a partire dal Rwanda, uno stato autoritario che, reduce dal genocidio degli anni '90, nel decennio successivo ha tentato di occupare il Congo dell'est. Tutt'oggi, l'M23 è percepito come un esercito guidato dal governo di Kigali, e non a torto. In un report delle Nazioni Unite divulgato a ottobre si evidenzia come il ministero della difesa ruandese, con l'appoggio dell'Uganda, stia sostenendo l'M23 con armamenti, truppe e supporto strategico. La storia dell'M23, Mouvement du 23-Mars, risale al Conflitto del Kivu (2004-2008) e nasce da una trasformazione del Cndp, contingente ribelle e filo-tutsi che fronteggiava le truppe del governo centrale congolese. Quando il Cndp è stato sciolto, alcune centinaia di soldati si sono ribellati agli accordi di pace e hanno fondato l'M23. Oggi il Mouvement conta 2000 militari ribelli ed è la formazione più organizzata della Rd Congo. Lo scorso novembre è riuscita ad occupare per qualche giorno Goma, costringendo all'esodo centinaia di migliaia di persone. Anche durante gli attuali scontri di luglio, le sue truppe continuano a resistere agli assalti del Fardc.
Tra il 1996 e il 2003 fra la RD Congo e il Rwanda scoppia una delle guerre più sanguinose della storia africana moderna, con Kigali che appoggia apertamente le forze ribelli anti-Kinshasa (la capitale del Congo) ed estende il suo controllo nelle zone orientali del paese nemico. Ma il principio del trauma che ha sconvolto tutta l'Africa centrale affonda le sue origini nel '94, anno del genocidio. In cento giorni un milione di ruandesi d'etnia tutsi viene trucidato da squadroni della morte armati di machete in tutto il Rwanda. A organizzare il massacro sono gli estremisti dell'Hutu Power che in seguito, rovesciati dalla controffensiva tutsi, scappano in Rd Congo. Qui fondano il Fdlr, il Fronte di Liberazione del Rwanda, un esercito irregolare che da allora vive ancora rintanato nella giungla del Kivu. Negli anni il Fdlr ha sempre partecipato ai conflitti scoppiati in Congo e si è reso responsabile di centinaia di azioni terroristiche contro i Banyamulenge, la gente di etnia tutsi presente in Kivu.
La presenza del Fdlr è tutt'ora denunciata dai politici rwandesi come una reale minaccia per la stabilità del paese. Questo luglio, durante i nuovi scontri di Goma, in numerosi twitt e dichiarazioni l'M23 denuncia l'utilizzo da parte dell'esercito congolese di truppe hutu del Fdlr. Anche la proliferazione di altri gruppi di ribelli che operano nel Kivu è una conseguenza del caos portato dall'M23 e prima ancora dalle rappresaglie etniche del Fdlr e dalle ingerenze ruandesi nel Congo est. L'esercito congolese, fragile e corrotto, non riesce a riportare l'ordine nella zona, abbandonata a uno stato di semi anarchia. Si sono così moltiplicate formazioni come Apcl, i Mai Mai, i Katata Katanga, i Raya Mutomboki (che letteralmente significa «gente arrabbiata»), gruppi nati per difendere i propri villaggi dagli attacchi dei ruandesi, ma molto spesso responsabili a loro volta di crimini, sequestri, stupri. Sono squadroni in lotta fra loro, impregnati spesso di superstizioni e credenze magiche e collegati al contrabbando di minerali. Il 15 luglio scorso la Adf Nalu - formazione di ribelli ugandesi attiva dagli anni '90 e composta da estremisti islamici che denunciano discriminazioni da parte dell'Uganda - ha costretto alla fuga 66mila congolesi dei territori del Beni. Prigionieri sequestrati e poi riusciti a fuggire hanno testimoniato alle radio l'allestimento di piste d'atterraggio nel cuore della giungla, dove arrivano elicotteri carichi d'armi per poi ripartire stipati di casse di minerali preziosi.
Dopo venti anni di guerra, nessuno ha più fiducia in niente nella Repubblica Democratica del Congo. Yaroslav, un medico impegnato nella missione Monusco, racconta davanti a un emporio di Bukavu: «Gli M23 guerreggiano per scalare il vulcano Nyragongo. È come se cercassero di portare le proprie postazioni sempre più in altro, per dominare la città. Ma in realtà nessuno capisce bene cosa vogliano fare. Meno che meno noi caschi blu, che non siamo autorizzati ad intervenire». La missione impegnata nella Rd Congo, con le sue 20mila unità, è stata appena resa più corposa da un ulteriore contingente, la Brigata di intervento speciale, dotata di un mandato offensivo e costituita da 3000 soldati di Sudafrica, Malawi e Tanzania. «Per ora non siamo coinvolti, ma la missione rimane in stato di allerta ed è pronta a intervenire, in particolare con la Brigata di intervento speciale, se i combattimenti dovessero minacciare direttamente i civili a Goma e nei campi sfollati della zona» dichiara Martin Nesirky, portavoce della Monusco. Ma per la gente dei villaggi e della società civile la missione è del tutto inutile, se non ambigua: «Quando muore qualcuno, i Caschi Blu si presentano tre giorni dopo per raccogliere giusto qualche informazione. Invece di fermare i ribelli, cosa che non sarebbe per loro così impossibile, prendono nota sulla posizione delle miniere più ghiotte e poi scrivono dossier su come sfruttare le nostre risorse», raccontano ridendo le donne dei villaggi, circondate dai loro figli, fra gli alberi di eucalipto. Indossano tutte abiti incredibilmente colorati, così belli da far dimenticare, anche solo per poco, l'incubo della guerra che devasta questa terra di profonda bellezza.

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