CULTURA

La memoria vive tra i capelli

BLACKNESS
DI GENOVA ARIANNA,

Il gioco degli scacchi come citazione colta e utopica, «luogo» dove ci si può permettere di immaginare un travestimento identitario. In Chess, l'ultimo video di Lorna Simpson (Brooklyn, 1960), sfila un archivio fotografico dalle potenti detonazioni politiche. È lei stessa a reinterpretare scene tipiche del suo repertorio, in una summa narrativa che, a volo d'uccello, ripercorre i momenti catalizzatori della sua produzione. Mette in scena le pose di ignoti e inconsapevoli «attori» ripescati negli archivi e, soprattutto, con l'artificio surrealista degli specchi sdoppia i personaggi, si fa corpo incerto, ambiguamente connotato come maschio/femmina, reitera le azioni in sequenze temporali interrotte, sospese, oniriche.
Affezionata fin dalla prima ora alla fotografia documentaria (agli esordi, quando iniziò a lavorare con Eleanor Antin e Martha Rosler, pur immersa nella cultura underground del cinema sperimentale, preferì non girare film e continuò con la sua diaristica tassonomica, a colpi di immagini fotografiche e testi di accompagnamento), Simpson nella mostra parigina al Jeu De Paume (visitabile fino al 1 settembre, a cura di Joan Simon), una delle più complete retrospettive del suo lavoro in Europa, resta fedele a se stessa con qualche magnifica deviazione. Oltre al recentissimo video Chess, regala anche Cloudscape (2004) dove l'artista Terry Atkins, avvolto in una spumosa foschia, apparizione di altri mondi che prende corpo davanti agli occhi dello spettatore, fischietta un motivo musicale, che trabocca di nostalgia e ricordi d'infanzia.
Prima, aveva affidato a una serie di labbra, riprese in primo piano e in movimento ipnotico, le canzoni di John Coltrane. «La musica fa parte della mia storia e di quella americana. Sono cresciuta con il jazz, i miei genitori suonavano sempre Coltrane sul loro giradischi - dice Lorna Simpson - e io lo ascoltavo, insieme a Miles Davis e Charlie Parker».

Souvenir esistenziali
È la memoria, infatti, il filo conduttore di ogni sua rappresentazione, inseguita sia con la macchina fotografica, sempre pronta a frugare nei recessi della quotidianità, sia attraverso le parole che procurano link prodigiosi con l'inconscio. Parole «audiovisive» le ha definite il critico nigeriano Okwui Enwezor, che hanno una loro voce soltanto se collegate all'immagine, altrimenti risulterebbero fragili e criptici componimenti poetici, eterei, senza carne. Genere, razza, rappresentazioni sociali e culturali del corpo, blackness sono le tematiche che si rincorrono nelle opere di Lorna Simpson.
I supporti prescelti sono le iniziali fotografie in feltro (sulla scia delle suggestioni di un amatissimo Joseph Beuys) e poi gli «album» classificatori di foto orfane, raccattate in giro per il mondo. Per diventare una storyteller della comunità african american degli anni Cinquanta, compra su ebay e nei mercatini delle pulci una serie di piccoli ritratti in cui si mostravano - in pose da pin up - le ragazze nere. Da questo album improvvisato nasce una riflessione, a tratti assai ironica, sull'identità femminile e la Storia, incapsulata in un dialogo serrato tra i fatti e la finzione scenica. Artista e attivista femminista, Simpson da circa trent'anni racconta la città di New York come un laboratorio multietnico e multiculturale, cogliendone i contrasti, le idiosincrasie, le fratture e i cliché.
Ben radicata in una consapevolezza politica stratificata fin dalla sua adolescenza, può «giocare» con gli stereotipi pubblicitari e rifare il verso alle immagini mainstream. Ecco allora la galleria di «modelle» che simulano le copertine delle riviste di moda patinate in interni di case molto modesti: parlano al telefono, si sdraiano sul divano, ammiccano sessualmente ma quelle pin up vintage e amatoriali, vestali sacre di una mimesi inedita, producono un cortocircuito percettivo, operano uno straniamento rispetto al canone del sogno americano, confondono i confini delle middle class e, con il loro ritmo sincopato, invitano ad allargare», meglio ad abbattere le ipotetiche pareti dell'immaginario. Cindy Sherman aveva imbastito un percorso simile, soltanto che l'icona en travesti era sempre lei, mai una «estranea». Qui, invece, il cratere, la vertigine si forma proprio al centro, fra la cronologia e la Storia. Il «buco» è tutto nella ripetizione della fotografia: la reiterazionerende circolare il soggetto, lo spossessa di sé, crea somiglianze e differenze, anche quando sono inesistenti.
In Please remind me of who I am (2009) il ricordo si fa struggente, quasi cimiteriale; cambia l'allestimento della «pinacoteca» improvvisata e fra un volto e l'altro, a inframmezzare quell'affollamento di simulacri che condensano vite sconosciute, ci sono macchie di colore: Lorna Simpson disegna e scarabocchia su carta, «fingendo» corrosioni di stampe fotografie che mangiano l'immagine, la cancellano, la inghiottono. «Gli anni Quaranta sono stati difficili per la comunità african american, linciaggi, leggi Jim Crow, segregazione. Così, la bellezza di quei ritratti crea un forte contrasto con il dolore che veniva sopportato dalle stesse persone che lì vediamo immortalate...»
La classificazione da «museo naturale» ha radici lontane nella poetica di Simpson: già negli anni Ottanta e Novanta l'artista si interrogava sugli scarti visivi e sulle appartenenze identitarie. Lo faceva attraverso gli stili delle capigliature - teste riprese da dietro, anonime, eppure «segni» di una comunità, testimonianza di una ribellione ai ruoli precostituiti o documento fisico di una tradizione antica e persistente.

La reliquia-parrucca
In Wigs (1994-2006), più di settanta pannelli in feltro con testi che scorrono, il corpo è scomparso. Rimangono i capelli e le acconciature a significare l'assenza del soggetto, a denominarlo e delimitarlo dentro la sua cornice esistenziale. Celebrano e deridono, sono dei «marcatori» culturali ed etnici, commentary lungimiranti di una società in rapido divenire. È un lavoro di grande forza, perché, spiega Lorna Simpson, «gli oggetti che includo nelle mie fotografie - capelli intrecciati, scarpe, maschere africane - vengono utilizzati come simboli e controfigure del corpo stesso». Testo e immagine si potenziano a vicenda, facendo affondare il visitatore nelle sabbie mobili dell'ambiguità.
Nella teoria di parrucche con cappelli neri - fissate al muro in maniera aristocratica, come fossero reliquie di una camera delle meraviglie - ne spiccano alcune bionde, rimando all'America delle Barbie e ai sogni impossibili. Fra le acconciature «normali», spuntano anche dei baffi e una parrucca pubica, allusione sessuale a cui, necessariamente, i capelli non possono sottrarsi.

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