Dopo tre giorni di eventi, djset, concerti, è toccato a Steven Henry, londinese che vive a Berlino e si esibisce con il nickname di Infinite Livez, interpretare nel modo più emblematico lo spirito ambivalente del Dancity Festival di Foligno. Infinite Livez si stava esibendo all'interno dell'auditorium di San Domenico, l'ex chiesa gotica trasformata in luogo per la musica, per il teatro e per l'arte. Manovrando agilmente campionatori e loop station, alternando la propria voce live ai ghirigori della sua stessa voce campionata, Steven Henry stava affastellando il suo pregevolissimo set con una serie di brani che crescevano lentamente e lentamente esplodevano. Un uomo solo al comando, a cesellare tutto, lanciare basi ritmiche, coordinare gli arrangiamenti, in una sorta di work in progress magmatico eppure convincente. Proprio nel bel mezzo di questo manovrìo l'immagine iconica del festival si è stagliata davanti a un ipotetico osservatore che scrutasse la scena dall'alto.
Di fronte a Infinite Livez infatti c'erano un centinaio di astanti seduti nelle poltroncine dell'auditorium, ascoltavano attente l'esibizione e avevano la posa di ascoltatori interessati, ma immobili, o quasi. Dietro al performer invece, in uno spazio che pure l'auditorium riserva al pubblico, un altro centinaio di persone accompagnava il set in un modo completamente diverso ovvero ballando e tenendo, letteralmente, il fiato sul collo all'artista. Ecco in questa doppia versione dell'attitudine del pubblico sta molto del portato dei festival di musica elettronica che guardano alla club culture, ma che nel momento in cui diventano festival si trasformano anche in occasioni di ricezione per un utenza che a quello stesso bacino guardano come a un'occasione intellettuale, fertilmente intellettuale.
Infinite Livez, a cavallo tra sabato e domenica, era diventato il baricentro di quest'attitudine complementare e limitrofa, apollinea e dionisiaca, fredda e calda, razionale e istintiva. È capitato altre volte, nei giorni del festival, che questa opzione si palesasse, alle volte in modo così emblematico, altre volte in modo più sfumato, ambiguo e magari, proprio per questo, anche più interessante. Le occasioni del Dancity Festival erano, da questo punto di vista, parecchie. Come non ritrovare alcune di queste sfumature in un progetto (prima assoluta mondiale) come quello del pianista armeno di matrice jazz Tigran Hamasyan e del combo inglese LV (una crew di dj dubstep che registra per la Hyperdub di Burial)? Come non sottintendere queste contrapposizioni e questi diversi approcci in un esperimento come quello che ha visto nella piazza davanti all'auditorium il dj e producer Shackleton, lo «Stanley Kubrick dell'elettronica» nonché uno dei numi tutelari delle virate stilistiche del settore nell'ultimo decennio, affiancato da una quarantina di tamburini della giostra della Quintana, il plurisecolare palio delle contrade folignati? Si trattava di occasioni perfette per innescare la marcia delle diverse dinamiche e palesare anche altri contatti, altre frizioni e altri sincretismi: la tradizione e l'avanguardia, la verve acustica e quella elettronica, il groove delle pelli e quello dei bit...In alcuni casi a Foligno questa duplice attitudine la sottolineavano gli artisti, in altri casi contribuivano a definirla anche i luoghi e gli orari. Bello il set t del duo formato da Vincenzo Vasi e Valeria Sturba, i quali hanno messo in scena il loro progetto Dervisci, un set pieno di strumenti (theremin, violino, basso elettrico, voci, synth, looper) e pieno di vortici, innescati volutamente dai due, in una sorta di sciamanica ricerca dell'ebrezza e dell'oblio sonoro. Venivano aiutati dalla disposizione dei diffusori dell'impianto audio che avvolgevano il pubblico in una sorta di girotondo ebbro, ma il loro set oltre ad avere un impeto ritmico piuttosto sottinteso era stato anche fissato nel tardo pomeriggio, non certo l'orario più adatto per andare in trance...
Poco dopo il set di Vasi e Sturba è arrivato il fenomenale tedesco Sven Kacirek, vero e proprio funambolo delle bacchette, che un po' come Infinite Livez, ma con un attitudine molto più cerebrale, ha deciso di strutturare i propri concerti come veri e propri one man shows. E poi il set dei francesi Zombie Zombie che hanno cesellato nel cortile di Palazzo Candiotti una serie di lunghe e febbrili cavalcate ritmiche. Neman e Schonberg in particolare, dal vivo suonano quasi esclusivamente batteria e percussioni e il loro menu è fatto tanto di iterazione quanto di potenza. A chiudere la kermesse Ghostpoet, presentatosi in compagnia di un trio di sodali strumentali, ha presentato il materiale del suo secondo album, Some Say I So I Say Light dove ha mescolato triphop, soul, funk, hip hop con un talento davvero speciale.