VISIONI

Il jazz di Rob Mazurek, temperamento e poesia

LIVE - Il trombettista con Chad Taylor alla batteria
LORRAI MARCELLO, NOVARA

È un po' come una dolce ossessione, come se Rob Mazurek non riuscisse a levarsi dalla testa degli spunti melodici che, ricorrrenti nelle sue improvvisazioni, rinviano prepotentemente a Don Cherry, al Don Cherry post-free, sognante, visionario, proiettato verso mondi diversi, tanto mondi musicali/culturali extraoccidentali ed extra-jazz, quanto un altrove utopico, un altrove negazione dello stato di cose presente. È come un permanente omaggio a Cherry che la musica di Mazurek offre. E poi, trovandosi di fronte all'assetto minimo di Chicago Underground - l'intestazione sotto la quale Mazurek dalla seconda metà dei novanta ha animato una varietà di organici a geometria variabile, dal duo all'orchestra - con Mazurek alla cornetta, Chad Taylor alla batteria, ed entrambi a qualche aggeggio elettronico, come non pensare a Mu, il rivoluzionario incontro ravvicinato del '69 di Cherry con il batterista Edward Blackwell ?
Ma, come si è potuto constatare una volta di più a Novara Jazz Winter, in Mazurek non c'è nessun rischio di ricalco complessivo dello stile di Cherry, e se Don è un faro che illumina un orizzonte, un'ispirazione che invita a guardare ad un'alternativa, in Mazurek c'è positività, persino ottimismo, più consapevolezza della complessità. Ma ecco Miles Davis, altro nume tutelare, che aleggia in un passaggio più astratto, lunare: è un attimo, poi l'improvvisazione scarta subito, in una maniera che non avrebbe potuto essere di Miles, che fa pensare piuttosto a dei guizzi e alla lucidità post-free di un - peraltro - grande ammiratore di Miles, Leo Smith (anche lui chicagoano, uno dei protagonisti, nella seconda metà dei sessanta, con Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell e Braxton, dei primi vagiti della cruciale AACM). Ed ecco anche una solidità da trombettismo di matrice bop/hard bop: e viene in mente che Mazurek ha studiato con Art Farmer, influenzato fra l'altro da un Fats Navarro (che ispirò anche Cherry). In questo caso si avverte meno la presenza di un'altra figura di culto di Mazurek, Bill Dixon: se non nella serietà dell'approccio, in un rigorismo che pure in Mazurek può non balzare subito all'occhio. Tutti i riferimenti che si possono trovare in Mazurek non sono mai imitativi, passatisti, sono materia viva per plasmare un discorso risolutamente qui ed ora. Il linguaggio del cornettista non si adagia su uno «stile»: è parecchio composito, ma la coerenza e la personalità sono date dal cercare di volta in volta soluzioni espressive non scontate, dalla capacità di calarsi in modo non routinario nell'improvvisazione. Con l'elettronica Mazurek e Taylor creano riff, sfondi, atmosfera; Taylor propende per una percussione reiterativa, con figure ritmico-timbriche scandite, a volte africaneggianti, e qualche volta sembra sull'orlo di uno stato di transe; in un paio di brani suona una mbira dello Zimbabwe, tra Africa, minimalismo, ninna nanna e, si sarebbe detto una trentina d'anni fa, lovely music.
Con un impiego di mezzi ridotto Mazurek e Taylor inanellano situazioni molto varie, in generale abbastanza rapide, in un insieme che d'altro canto ha una sua forte coesione. Reggere in maniera così avvincente e su una discreta distanza un duo con una strumentazione così limitata ci vogliono temperamento, poesia, e intesa non comuni. Una prova non da tutti: anche questo faceva pensare a Mu.

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