La bulimia creativa di Pippo Delbono è proverbiale. «Prendi questo fardello e portalo tu» è una delle strofe di Un canto per Pasolini che più lo rappresenta e non solo nell'idea di un passaggio di testimone con l'intellettuale friulano, ma come vagone sul quale far salire tutta la produzione di questo artista del nostro tempo: scrivere, recitare, dirigere; teatro, cinema, opere liriche; e ancora sperimentare e tradurre la realtà sono per lui più un imperativo morale che un qualsiasi divertissement. Anche se del gioco inteso come stupefazione continua del mondo è piena la sua vita. Lo si incontra a margine di un seminario attoriale milanese, pieno di impegni e progetti tanto che in rapida successione sarà tra poco a Cannes con due film, Henri di Yolande Moreau e Un château en Italie di Valeria Bruni-Tedeschi; a fine maggio debutterà al Vie Festival di Modena con Orchidee prima di andare al Piccolo Teatro di Milano e il prossimo 6 giugno, Amore Carne, il suo film «al cellulare» passato in Orizzonti a Venezia lo scorso anno, avrà una distribuzione in sala.
La distribuzione di «Amore Carne» può segnare un ulteriore e profonda svolta nel tuo modo di far cinema?
La vita è fatta di incontri e casualità. Il mio lavoro è mettere insieme dei fili, anche segreti, che non capisco pienamente ma che vanno tessuti. Amore Carne è un film di incontri, di luoghi, di persone. Un luogo che ritrovo vicino il giorno che morì Pina Bausch, Mia madre, morta da pochi mesi, Bobò la persona che incontrai anni fa in un manicomio di Aversa e che da allora mi segue in ogni mio spettacolo. Mi piace pensare alla possibilità, attraverso il cinema, di aprire l'ascolto e aggiungo che l'ascolto è una qualità profondamente femminile e aprendomi a ciò posso mostrare automaticamente le sceneggiature nascoste della vita.
Anche con un mezzo di consumo quotidiano e intensificato come il cellulare?
Girare con un cellulare mi ha permesso di avere uno sguardo diverso, di guardare e di lasciarmi guardare. Si crea un'esperienza diretta con il mondo. Il rapporto è più fisico. Quando io ho il mio telefonino in mano posso danzare dietro alla camera. Da una parte sono totalmente perso nella danza, dall'altra pienamente cosciente. Tutte le scene di Amore Carne nascono da relazioni affettive; è il cinema che incontra destini e culture diversi. L'incontro, ad esempio in teatro, può essere a volte tecnicamente impossibile. Nel cinema posso, con una videocamera o con un telefonino incrociare destini che altrimenti difficilmente si troverebbero. Posso anche andare su una spiaggia, riprendere un barcone di disperati e riavvicinarli ad altre persone. In teatro non potrei farlo.
E di momenti di riavvicinamento a questioni cruciali della tua e della vita degli altri ce ne sono molti. In elenco: politica, omosessualità, malattia.
Cerco nel cinema, la possibilità di fermare, grazie a un piccolo strumento come un cellulare, un attimo irripetibile. In questi attimi, con questi mezzi più o meno poveri si può riscoprire una poesia assolutamente preziosa. C'è un concetto nel buddismo, che ho praticato per molti anni, il concetto di trasformare il veleno in medicina. Questa verità mi è stata sicuramente molto utile. Trasformare le cose, anche le più terribili, in vita. A un certo punto del film mi dico che se dovessi tornare indietro a quel giorno in cui un dottore con un camice bianco e con delle analisi in mano, mi diceva, molto preoccupato, «lei è positivo». «lei ha l'Aids». Se mi dicessero cosa voglio cambiare nel copione di quella storia, io direi assolutamente nulla. Quella storia mi ha insegnato a guardare la morte e la vita dritte negli occhi. La morte mia, e degli altri. Forse il compito dell'artista è proprio rapportarsi con il dolore, con la sofferenza. E consegnare delle chiavi di lettura.
Amore Carne ha già un anno, peraltro preceduto da un forte e intenso lavoro progettuale. Hai ulteriormente limato il film nelle immagini e nel montaggio?
Il lavoro del montaggio è fondamentale. Ho lavorato a diverse versioni di Amore Carne, limando il mio girato fino alla versione presentata al Festival del Cinema di Venezia. Ho sistemato parole e immagini fino all'ultimo. Una sola parola, una sola immagine, possono fare veramente la differenza nella composizione finale. Non è maniacalità ma poesia, perché la poesia è per sua stessa natura una composizione complessa, direi millimetrica.
Ed infatti ciò che colpisce è la profondità di conoscenza che hai del cinema, che non ci pare passione solo cinefila.
È da molto tempo che mi sono affacciato al cinema; ho sempre cercato di legare alle mie esperienza da spettatore - Kurosawa, Pasolini, Fellini, Bergman. - la mia esperienza personale. Nel 1985 mi comprai una videocamera Vhs e da lì in poi non ho mai smesso di girare il mondo con una handycam che è diventata col tempo una troupe e poi si è trasformata in un iPhone. Sempre però cercando di guardare alla vita con lo sguardo del cinema. In qualche modo i miei film sono assolutamente non realistici; l'immagine si associa in modi assolutamente diversi da quelli della logica. Alla verità si arriva portando all'estremo la non logicità delle cose. Il grande rischio è pensare che la verità sia naturalismo, la verità passa invece attraverso a una grande costruzione. Quando a Malaga vidi la stanza in cui Picasso dipinse una delle sue amanti e mi mostrarono un ritratto «naturalista» della donna vidi una persona dolce. Quando vidi poi il ritratto cubista mi trovai di fronte a una donna dura, violenta e allo stesso tempo dolce e sicura. Per me, forse, è semplicemente questo il cinema. Cambiare e moltiplicare i punti di vista.
Ci pare che tu stia delineando anche il metodo con cui dirigi gli attori e ti autodirigi.
Ma c'è di più: essere attore è come camminare su un filo. È una cosa che hanno dentro i bambini, o le persone diverse. quelli che hanno un corpo poetico, raffinato. In questo senso mi sento vicino a Genet, ad Artaud. La parola responsabilità mi spaventa, mi fa paura. La responsabilità è bigotta, è politicamente corretta. Io voglio essere irresponsabile. E tornando al cinema ho avvertito il bisogno di affrontare il linguaggio cinematografico con mezzi «altri». Ho la piena coscienza di dove un cellulare può portare a un'immagine pittorica, unica, e di dove invece, per forza di cose non riesce ad arrivare.
Dunque, sei attratto dalle nuove possibilità tecniche, hai mai pensato di girare in 3D?
Mentre giravo Amore Carne, il mio montatore, Fabrice Aragno, che aveva lavorato con Godard, aveva con se una piccola videocamera 3D e ho cominciato a giocarci. Il 3D potrebbe essere importante per raccontare alcune cose: Si potrebbe usare per raccontare l'angoscia della vita all'interno delle carceri, di chi è costretto tra le mura di una prigione. In questo caso potrebbe essere benissimo il mezzo. Oppure va bene per esperienze come il Cirque du Soleil, più difficilmente risulta credibile per raccontare l'essere umano che danza. C'è una poetica particolare del mezzo e non si può tradirla.