VISIONI

L'oro puro di Wagner

LIRICA - «Das Rheingold» al Massimo di Palermo diretto da Inkinen
PECORARO ALFREDO, PALERMO

Si ripete spesso quanto sia difficile scatenare entusiasmi con L'Oro del Reno, il prologo delle tre giornate che compongono l'Anello del Nibelungo. A Palermo lo spettacolo di Graham Vick, che è andato in scena fino al 31 gennaio al Teatro Massimo, ha colpito nel segno, aprendo con ottimo passo il cammino che nell'anno del bicentenario dovrebbe portare in scena l'intero colossale capolavoro wagneriano nel teatro siciliano (Walkiria fra meno di un mese, in autunno seconda e terza giornata).
Vick si serve del palcoscenico vuoto e di quaranta mimi, per raccontare uno spettacolo vivissimo e scabro, dal segno marcatamente contemporaneo, immemore di mitologie germaniche ma tuttavia in linea con le classiche letture marxiste del libretto. In un calibrato gioco di luci le sedie trasparenti avvolgono di flutti delle figlie del Reno, odiose ninfette da public school (Ana Puche Rosado, Christine Knorren, Lien Haegeman), due minacciosi montacarichi sono l'emblema dei giganti-operai (gli ottimi Christian Hubner e Keel Watson), un neon veglia sulla cupa banca d'affari del Nibelheim, con lavoranti cocainomani sfiniti, i cubi - scrivania compongono le spire del drago e una brutta carta da parati a girasoli finge un iperuranio divino cedevole e stinto.
Vari elementi sono rielaborazioni dei precedenti Ring realizzati da Vick a Birmingham e a Lisbona, ma solo a Palermo è possibile il colpo di teatro che mozza il fiato quando la luce dorata bagna l'immensa sala di Basile, tramutata in sfavillante Walhalla, il più fallace e ingannevole dei paradisi, il teatro stesso, appunto. Un richiamo alle contingenze di casa nostra? Forse. Comunque sia, la regia muove la vicenda con qualità impeccabile, giocando sui corpi , sui costumi (un omaggio all'Italia l'Erda 'felliniana', magna mater fra Anitona e la tabaccaia, ben cantata da Ceri Williams), persino sui volti, alternando nitore e parodia, e incontrando nella direzione di Pietari Inkinen un complice sagace.
Gesto sicuro e svelto, il giovane finnico, altro talento cresciuto alla scuola di Jorma Panula, si ingegna nell'elevare l'imponente architettura wagneriana senza precipitare i tempi, attento a sbalzare i singoli temi come pure ad assottigliarne e affilarne gli impasti sonori, bandendo ogni solennità. Forse persino troppo, talvolta, magari anche al fine di dar agio alle voci, nel vuoto della scena, che però nel complesso tengono bene: dal Wotan maturo di Franz Hawlata, che si appoggia a un fraseggio di prim'ordine, alla coppia di banchieri Alberich( un bravissimo Sergei Leiferkus) e Mime (Robert Brubaker), dalla Fricka 'vamp' di Anna Maria Chiuri, al Loge livido di Will Hartmann, fino alla coppia Donner e Froh, Eric Greene, prestante in tenuta da polo, e Alex Wawiloff, bamboccione con orsetto e ombrello arcobaleno. Successo calorosissimo e meritato per un progetto che, per qualità complessiva, offre più di un argomento a chi ha contestato le presunte ragioni artistiche alla base del recente, sorprendente commissariamento del teatro siciliano.


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